Il lavoro agile: problemi e prospettive [E. Massi]

Il lavoro agile: problemi e prospettive [E. Massi]

Che il mondo del lavoro stia cambiando, negli ultimi anni, con una velocità più che accelerata penso che se ne siano resi conto tutti gli addetti ai lavori. L’organizzazione del lavoro sta mutando in continuazione e l’approvazione definitiva del c.d. “lavoro agile” chiamato anche “smart working” rappresenta l’ultima novità. Esso interviene radicalmente sia sui tempi che sul modo di svolgimento della prestazione ed appare, principalmente, connesso al conseguimento di determinati obiettivi.

Le parti sociali hanno, come al solito, precorso i tempi se, come è vero, circa 300.000 lavoratori operano con tale modalità: grandi imprese (Enel, Barilla, Pirelli, Tetrapak, Italtel, Intesa San Paolo, ecc.) hanno raggiunto accordi sindacali finalizzati alla introduzione di tale modalità e l’interesse sta aumentando anche presso le piccole e medie aziende.

L’analisi che segue partirà dai contenuti dei singoli articoli contenuti nel disegno di legge, giunto in direttiva finale essendo stato trasmesso dalla competente Commissione Lavoro, all’aula del Senato, in terza lettura, per la definitiva approvazione.

Il disegno di legge n. 2233 – B, nella prima parte contiene significative novità relative al lavoro autonomo, mentre al lavoro agile è dedicata la seconda parte del provvedimento: ed è per questo che l’esame inizia dall’art. 18.

Gli obiettivi che si pone il Legislatore, sulla scorta di esperienze positive già introdotte dalla contrattazione collettiva in molte imprese, sono quelli di incrementare la competitività e di agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Interi settori produttivi e commerciali ne sono potenzialmente interessati: reti commerciali, importanti “pezzi” del terziario e dell’industria, lavoratori con qualifiche amministrative e direttive, credito, assicurazioni e, tra i lavoratori interessati, l’esigenza di coniugare la prestazione con le esigenze della famiglia e del tempo libero può, con maggiore facilità, essere soddisfatta. Nella sostanza, con tale sistema, si cerca di utilizzare al meglio le opportunità concesse dalla tecnologia per il c.d. “lavoro da remoto”, cosa che, in molti casi, potrebbe favorire anche le prestazioni del personale femminile, soprattutto in carenza di un welfare pubblico efficiente.

Fatta questa breve premessa, ritengo opportuno riflettere sulle questioni che maggiormente traspaiono da una prima lettura dell’art. 18.

Innanzitutto, va sottolineato come il lavoro agile non sia una nuova tipologia contrattuale (cosa che di per sè stessa avrebbe portato ad esaminare, da subito, alcune questioni interpretative rilevanti), ma una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato che scaturisce da un accordo tra le parti ed il cui contenuto può riguardare forme organizzative del lavoro per fasi, cicli ed obiettivi. Tutto questo, afferma il Legislatore, senza precisi vincoli di orario e di luogo dell’attività che andrà prestata anche attraverso l’utilizzo di strumenti tecnologici.

Tale attività, comunque, va svolta entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero o settimanale derivanti dalla legge o dalla contrattazione collettiva la quale, senza ulteriore specificazione, può essere anche di secondo livello.

Queste prime affermazioni normative meritano qualche riflessione.

Lo smart working trova applicazione nel rapporto di lavoro subordinato sia pubblico che privato: di conseguenza, la nuova disciplina viene senz’altro esclusa per il lavoro autonomo pur se attuato attraverso la forma della collaborazione coordinata prevista dall’art. 2 del decreto legislativo n. 81/2015. Ma, al di fuori di questa ipotesi, il lavoro agile è possibile per il rapporto di lavoro a tempo indeterminato o determinato (entrambi anche a tempo parziale).

Ma, tale modalità è ipotizzabile anche per l’intermittente e l’apprendistato professionalizzante che sono, pur sempre, contratti di lavoro subordinato, sia pure “sui generis”?

Per il primo, la c.d. “chiamata”, i limiti insiti nell’art. 13 del D.L.vo n. 81/2015  e determinate condizioni che scaturiscono dalla stessa tipologia contrattuale rappresentano notevoli ostacoli, mentre per il secondo, ivi compreso quello degli “over 29” titolari di un trattamento di NASPI, disciplinato dall’art. 47, comma 4, del decreto legislativo n. 81/2015 si pone, indubbiamente, la questione legata all’attività formativa ed alla responsabilità del “tutor” ma, di per se stesso, lo svolgimento della prestazione con tale modalità appare, sul piano prettamente teorico, possibile, pur con notevoli criticità da superare, cosa che, sul piano pratico, ne sconsiglia la utilizzazione.

Il contratto di lavoro agile, afferma il Legislatore, va concordato tra le due parti: lo stesso, deve essere sottoscritto dal datore di lavoro e dal lavoratore (art. 16, comma 1), ai fini della prova e della regolarità amministrativa, ma sui contenuti minimi specifici mi soffermerò tra poco parlando dell’art. 16.

Nulla dice la norma sui contratti collettivi in essere in moltissime aziende e sulle modalità di “smart working” che da esse sono scaturite: probabilmente, il Legislatore avrebbe fatto bene ad inserire una norma transitoria di correlazione. In mancanza di ciò, tuttavia, a mio avviso, quelle modalità sono perfettamente valide e se, in qualche passaggio, non sono in linea con alcuni requisiti minimi richiesti (come ad esempio, nei tempi del recesso dalla modalità o nel trattamento economico e normativo) vanno adeguati. Ovviamente, la contrattazione collettiva potrà continuare a disciplinare lo “smart working” intervenendo su aspetti non toccati dalla riforma e migliorando quelli appena disciplinati.

Il Legislatore fa riferimento anche a “porzioni”, sia pur ben definite, di attività quando parla di fasi, cicli ed obiettivi: ciò significa, ad esempio, che la modalità “agile” può essere reversibile, con il rientro a pieno orario in azienda una volta raggiunto l’obiettivo per la quale era stata scelta.

Il lavoro agile postula che la prestazione venga svolta all’esterno dell’azienda per una parte del giorno, della settimana o del mese e si differenzia dal telelavoro il quale, invece, prevede che l’attività venga svolta completamente fuori dei locali dell’impresa. Quest’ultimo viene disciplinato nel settore privato da un accordo interconfederale del 9 giugno 2004 e da una serie regole riprese dalla contrattazione collettiva aziendale o di categoria. Nel settore pubblico, invece, esiste una regolamentazione contenuta nel DPR n. 70/1999 ma gli esiti della stessa nei 18 anni di vigore della norma sono stati oltremodo scarsi.

Lo smart working valorizza l’elemento della flessibilità organizzativa molto di più del telelavoro in quanto appare precipuo l’utilizzo delle nuove tecnologie che, indubbiamente, ne sembrano aumentare la potenzialità.

Il comma 2 dell’art. 18 ricorda che grava sul datore di lavoro l’onere di assicurare il buon funzionamento degli strumenti tecnologici offerti in dotazione al lavoratore e strettamente funzionali allo svolgimento dell’attività lavorativa.

Come dicevo pocanzi, il lavoro agile può trovare applicazione anche presso le Pubbliche Amministrazioni: del resto la recente riforma del pubblico impiego varata nel corso del 2016, ne prevede una grossa utilizzazione, da subito, con un significativo incremento entro il 2018: il Legislatore appare, comunque, prudente nella formulazione del comma 3 in quanto lo prevede, nel rispetto delle specifiche compatibilità del rapporto di pubblico impiego e, sicuramente, ciò potrà avvenire per percentuali di lavoratori che si auspicano crescenti e senza alcun aggravio per le finanze pubbliche (nella sostanza, a costo zero) come appare chiaramente dalla lettura del comma 5. Per la verità, in certi ambiti, l’attesa appare crescente, come dimostra l’iniziativa prevista per la fine del mese di maggio 2017 a Milano ove attraverso una iniziativa congiunta del Comune, di Cgil, Cisl, Uil, Assolombarda, Anci Lombardia, Camera di Commercio e Sda Bocconi, che mira a favorire lo sviluppo del co-working e delle politiche di conciliazione tra i tempi di vita e di lavoro.

Il comma 4 sancisce con una norma legale quanto era stato già previsto nel modello ministeriale allegato al D.M. che ha fornito la piena operatività ai c.d. “premi di produttività”, previsti dall’art. 1, commi 182 e seguenti, della legge n. 208/2015 ed, operativamente, disciplinati dalla circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 28/E del 15 giugno 2016: lo smart working rientra a pieno titolo negli incrementi di produttività ed efficienza e gli incentivi di natura fiscale e contributiva vanno riconosciuti anche ai prestatori subordinati che esplicano la loro attività con modalità di lavoro agile.

L’articolo 19 si occupa della forma e dei contenuti dell’accordo e delle modalità di recesso.

Ma, andiamo con ordine cercando di esaminare i punti essenziali:

  1. stipula del contratto: essa, come dicevo, va fatta per iscritto, sia “ad probationem” che ai fini della regolarità amministrativa, cosa più importante rispetto ad altre condizioni inserite nei contratti di lavoro subordinato, in quanto tale modalità che si innesta, comunque, su un contratto di lavoro subordinato, postula una attività che si svolge, in parte, all’esterno dei locali aziendali ove il datore di lavoro è, oltremodo limitato nel proprio potere di controllo. Il riferimento alla regolarità amministrativa è importante sotto più aspetti, non ultimo quello connesso ad eventuali controlli degli organi di vigilanza (tra l’altro, come si vedrà successivamente, è prevista la comunicazione obbligatoria telematica preventiva ai servizi per l’impiego);
  2. luogo di svolgimento dell’attività all’esterno dell’azienda: credo che esso debba essere specificato anche in relazione ad eventuali questioni connesse con il rispetto della normativa sugli infortuni della quale parlerò successivamente;
  3. esercizio del potere direttivo del datore di lavoro correlato alla prestazione lavorativa esterna all’azienda: si tratta di un passaggio, a mio avviso, importante e delicato, in quanto dovranno essere disciplinate le forme in cui il datore (o il responsabile del settore o dell’area produttiva) esercita il proprio potere direzionale, magari con l’individuazione di momenti nei quali vengono impartiti gli ordini;
  4. tempi di riposo del lavoratore: qui la frase indicata dal Legislatore al comma 1 dell’art. 19 dovrebbe essere correlata e, a mio avviso, “spiegata” in relazione a quanto affermato dall’art. 1, lettera b) del D.L.vo n. 66/2003 il quale fornisce una definizione del periodo di riposo che consiste “in qualsiasi periodo che non rientra nell’orario di lavoro”: Cosa significa tutto ciò? Che tutto quello che non viene definito “riposo” è orario di lavoro? Se la risposta è positiva, la modalità “agile” che consente al lavoratore di gestire in autonomia la propria prestazione, anche sotto l’aspetto dell’orario, rischia di far venir meno gran parte dei vantaggi. E, poi, come fa il datore a verificare il rispetto dell’orario allorquando la prestazione si svolge lontano dal perimetro aziendale? Ciò, a mio avviso, potrebbe non essere facilmente verificabile;
  5. disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro: il lavoratore non deve essere sempre raggiungibile e, di conseguenza, nell’accordo vanno definiti le misure organizzative ed i tempi nei quali il prestatore si disconnette, non essendo contattabile per e-mail o per telefono. Ovviamente, fermo restando il diritto alla disconnessione, si potrebbero individuare fasce di reperibilità con vincoli massimi di orario;
  6. durata dell’accordo: il Legislatore stabilisce che lo stesso può essere a termine (probabilmente, così sarà nella maggior parte dei casi) o a tempo indeterminato. Se a termine può essere prorogato, con l’accordo di entrambe le parti, e non sussiste alcun limite numerico alla proroga essendo, se inserito in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, una modalità della prestazione e non una tipologia contrattuale come il contratto a tempo determinato ove, in un arco temporale di 36 mesi, le proroghe sono 5 (art. 21 del D.L.vo n. 81/2015);
  7. recesso: il preavviso applicabile al lavoro agile, non può essere inferiore ai trenta giorni. Esso può essere esercitato da ciascuna delle parti ed ha, come conseguenza, il ripristino della prestazione “in toto” all’interno dell’azienda. Qualora nell’impresa vi sia un accordo collettivo che disciplini la materia, sarà quello il termine da applicare: esso, tuttavia, non potrà essere inferiore a quello ipotizzato dalla norma. Diverso, invece, è il termine per i lavoratori disabili individuati dall’art. 1 della legge n. 68/1999 (e, soltanto, per essi non rientrandovi le c.d. “categorie equiparate” di cui parla, in via pressoché generale, il successivo art. 18): qui il preavviso di recesso (ma soltanto da parte del datore di lavoro in quanto per il lavoratore resta immutato) non può essere inferiore a novanta giorni. Tale diversità di termini appare strettamente correlata alla necessità per il disabile di riorganizzare il percorso di lavoro in relazione alle proprie esigenze di cura e di lavoro. I termini del recesso possono non essere rispettati da entrambi i contraenti in presenza di un giustificato motivo (e qui sarebbe il caso di individuarne qualcuno sia per il datore che per il lavoratore): se la modalità “agile” è a termine, il periodo non inferiore ai trenta giorni può ben essere non rispettato, se, invece, è a tempo indeterminato, il ritorno alla prestazione da svolgere interamente all’interno dell’azienda avviene senza alcun preavviso.

L’art. 20 si occupa, principalmente, del trattamento economico e normativo del lavoratore “agile”: esso non può essere inferiore a quello applicato, in attuazione dei contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, territoriale o dalle “loro” RSA o dalle RSU (c’è lo specifico richiamo all’art. 51 del D.L.vo n. 81/2015), ai lavoratori che all’interno dell’impresa svolgono le medesime mansioni.

Lo “smart working” non può essere lo strumento per qualsiasi discriminazione ed, anzi, nell’accordo sottoscritto tra le parti ex art. 19 può essere riconosciuto il diritto all’apprendimento permanente, in modalità formali, non formali o informali, e alla periodica certificazione delle relative competenze. Qui il Legislatore ripete la previsione dell’art. 4, commi da 51 a 61 e da 64 a 68, della legge n. 92/2012. Per completezza di informazione ricordo che sull’apprendimento permanente e sulla certificazione delle competenze si è registrata l’intesa tra Governo e Regioni nella Conferenza unificata del 20 dicembre 2012 e che, successivamente, è stato emanato il D.L.vo n. 13 del 16 gennaio 2013.

L’art. 21 si occupa delle modalità correlate al potere di controllo ed al potere disciplinare.

Afferma il Legislatore  (comma 1) che con l’accordo tra le parti di cui parla l’art. 19 viene disciplinato “l’esercizio del potere di controllo sulla prestazione resa dal lavoratore all’esterno dei locali aziendali nel rispetto di quanto disposto dall’art. 4 della legge 20 maggio 1970 n. 300, e successive modificazioni”. A mio avviso, la disposizione appare abbastanza delicata in quanto una disposizione che consente il controllo da parte del datore sugli strumenti consegnati in dotazione per l’esercizio della prestazione c’è già ed è contenuta nel comma 3 ove si afferma, a chiare lettere, che il datore, se vuole esercitare il proprio potere, deve fornire al prestatore una “adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli”.

Il secondo comma dell’art. 21 appare, invece, particolarmente coerente con la nuova modalità di prestazione. Si afferma, infatti, che le condotte, connesse all’esecuzione della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali, che possono dar luogo alla applicazione dei provvedimenti disciplinari, vanno individuate nell’accordo che le parti sottoscrivono ex art. 19.

 Nella sostanza, se è sufficiente il codice disciplinare o il regolamento aziendale affisso in luogo accessibile a tutti contenente le declaratorie delle sanzioni per poter esercitare il potere disciplinare allorquando il lavoratore si trova in azienda, per poter sanzionare il prestatore per comportamenti ritenuti scorretti durante l’attività svolta al di fuori del perimetro dell’impresa, occorrerà individuare le specifiche condotte che potranno dar luogo alla contestazione ed alla successiva applicazione delle sanzioni disciplinari, nel rispetto dell’iter contrattuale e dell’art. 7 della legge n. 300/1970. Ovviamente, in quest’ultima ipotesi, non si potrà parlare di nullità per mancata affissione del codice disciplinare come sottolineato, più volte, dalla Cassazione in quanto il Legislatore ha rimesso al solo accordo sottoscritto tra le parti la individuazione delle condotte scorrette.

Con gli art. 22 e 23 si entra, a mio avviso, nella parte più delicata della nuova normativa in quanto una parte della prestazione viene svolta in locali o postazioni sulle quali il datore di lavoro non ha un diretto controllo.

Ma, anche qui è opportuno andare con ordine.

Il Legislatore (art. 22, comma 1) afferma che il datore di lavoro deve garantire la salute e la sicurezza del lavoratore che presta la propria attività con modalità “agile”: con questo obiettivo consegna allo stesso ed al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS), con cadenza annuale, un’informativa scritta ove vengono individuati i rischi generali e quelli specifici connessi alla modalità di esecuzione della prestazione. Sul lavoratore (comma 2) grava l’onere di collaborare all’attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal proprio datore alfine di fronteggiare i rischi connessi all’esecuzione della prestazione al di fuori dell’azienda.

Alcuni dubbi andrebbero, a mio avviso, chiariti direttamente dal Legislatore non essendo sufficiente una circolare interpretativa del Ministero (come richiesto dalla Commissione Lavoro del Senato), atteso il valore che la Giurisprudenza di legittimità riserva a tale atto amministrativo (Cass. S.U., n. 23031/2007; Cass., n. 237/2009; Cass., n. 5137/2014). Non è chiarito, infatti se con l’informativa appena citata si esauriscano gli obblighi connessi a tale modalità lavorativa e come il prestatore possa “cooperare” se non nei limiti delle dotazioni informatiche ricevute. Anche il concetto di “rischi specifici” dovrebbe essere limitato alla strumentazione consegnata in quanto, a meno che non si voglia parlare di “responsabilità oggettiva” (cosa che mi sembra, oltre modo, incoerente con lo spirito della norma): il datore non ha alcuna possibilità di intervenire sul luogo scelto dall’interessato che, ricordo, è fuori dal perimetro aziendale. In che modo lo stesso potrebbe essere ritenuto responsabile, anche penalmente, di eventi causati da fattori esterni al processo produttivo aziendale ove il datore non ha alcun potere di intervento?

L’art. 23 tratta le questioni legate all’assicurazione obbligatoria per gli infortuni e le malattie professionali (così recita la rubrica) ma il comma 1, citando l’art. 9-bis della legge n. 608/1996, tratta un altro argomento: l’accordo sottoscritto per lo svolgimento di lavoro agile va comunicato on-line ai servizi per l’impiego entro il giorno antecedente l’inizio della prestazione. Da ciò discende la necessità di un sollecito adeguamento della modulistica telematica messa a disposizione dal Ministero del Lavoro.  Le Amministrazioni Pubbliche (che sono quelle individuate dall’art. 1, comma 2, del D.L.vo n. 165/2001) possono adempiere a tale onere entro il ventesimo giorno del mese successivo. Il mancato adempimento o il ritardo sono sanzionati in via amministrativa con una sanzione compresa tra 100 e 500 euro, diffidabile e quindi, onorabile con il pagamento nella misura minima. In mancanza di una specifica disposizione, ritengo che per le modalità “agili” instaurate, in virtù della contrattazione collettiva, prima dell’entrata in vigore della legge, non sussista un obbligo di comunicazione “a posteriori”.

Probabilmente, per avere un quadro unitario delle esperienze in corso, in via amministrativa, si potrebbe chiedere alle imprese di ottemperare a forme di comunicazioni riferite ad attivazioni antecedenti l’entrata in vigore della legge (sarà il giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (art. 26), da effettuare entro una certa data ma, il mancato adempimento non potrebbe essere sorretto da sanzioni, non potendo, le stesse, essere applicate per analogia.

Il comma 2 afferma il diritto alla tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali dipendenti dai rischi connessi all’esercizio dell’attività al di fuori dell’azienda.

Qui, mentre il datore appare responsabile degli obblighi di tutela connessi con le lavorazioni eseguite all’interno dell’impresa, per quelli fuori non può essere così, non potendo, in alcun modo governare, o prevenire alcuni rischi. Secondo taluni orientamenti emersi nel corso della audizione al Senato una soluzione al problema potrebbe essere rappresentata imputando la malattia non all’impresa ma con il meccanismo mutualistico per le malattie non riconducibili alle lavorazioni avvenute nell’impresa, secondo il calcolo degli oneri delineato dal D.M. 12 dicembre 2000 all’art. 9. 

Vedremo quale sarà la posizione ministeriale e quella dell’INAIL.

La norma continua affermando il diritto alla tutela contro gli infortuni sul lavoro durante il normale percorso di andata e ritorno tra la propria abitazione ed il luogo prescelto per la prestazione. A tal proposito vengono richiamate le disposizioni sull’infortunio “in itinere” di cui parla l’art. 2, comma 3, del DPR n. 1124/1965, con la sottolineatura che la scelta del luogo della prestazione sia dettata da esigenze connesse alla prestazione o dalla necessità di conciliare quelle tra vita e lavoro: il tutto in un’ottica di ragionevolezza (ma quali sono i criteri da seguire, atteso che gli stessi sono fortemente influenzabili da situazioni soggettive ove appare preminente l’aspetto della conciliazione tra i tempi di vita e di lavoro?).

Una breve considerazione: il Legislatore parla del tragitto tra la propria abitazione ed il luogo della prestazione esterno all’azienda: perché, magari scrivendo meglio la norma, non è stato, esplicitamente, coperto anche il tragitto tra la sede dell’azienda e quella esterna, atteso che potrebbe ipotizzarsi una attività svolta nella stessa giornata presso le due sedi?    

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Eufranio Massi
Eufranio Massi 321 posts

E' stato per 40 anni dipendente del Ministero del Lavoro. Ha diretto, in qualità di Dirigente, le strutture di Parma, Latina, i Servizi Ispettivi centrali, Modena, Verona, Padova e Piacenza. Collabora, da sempre, con riviste specializzate e siti web sul tema lavoro tra cui Generazione vincente blog.

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