Licenziamenti: cosa succede dal 1° luglio

Licenziamenti: cosa succede dal 1° luglio

Il D.L. n. 41/2021 fissa al 1° luglio la fine del blocco dei licenziamenti per le aziende della “CIGO” ed al 1° novembre per altre tipologie di datori di lavoro.

Ho già avuto modo di soffermarmi su quanto, da ultimo, affermato dal D.L. n. 41/2021 ora convertito, con modificazioni, nella legge n. 69, circa la fine del blocco dei licenziamenti, individuali e collettivi, per motivi economici: tale disposizione la fissa al 1° luglio per quelle aziende che rientrano nel campo di applicazione della CIGO ed al 1° novembre per i datori di lavoro che utilizzano l’assegno ordinario del FIS, dei Fondi bilaterali alternativi, dei Fondi delle Province Autonome di Trento e Bolzano e il trattamento della Cassa in deroga.

Ricordo, per completezza di informazione, che prima dello scoccare delle rispettive date è sempre possibile operare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo o risoluzioni consensuali in alcune ipotesi specifiche, ricordate, da ultimo, anche dal D.L.25 maggio 2021 n. 73:

  1. Cambio di appalto con la riassunzione del personale da parte del datore di lavoro subentrante nel rispetto di un obbligo di legge (ad esempio, art. 50 del codice degli “appalti pubblici”), di contratto collettivo (ad esempio, l’art. 4 del CCNL multiservizi) o di una clausola contenuta nel contratto di appalto;
  2. Licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’impresa, conseguenti anche alla messa in liquidazione della società, a meno che non si configuri una cessione totale o parziale dell’azienda, nel qual caso scatta la tutela dell’art. 2112 c.c. per ogni lavoratore interessato, con la conseguente illegittimità dei recessi;
  3. Accordo collettivo aziendale stipulato con le organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale (in sostanza, con le organizzazioni territoriali di categoria, ma non con le RSA o le RSU che, tuttavia, possono, a mio avviso, aggiungere la propria firma “ad abundantiam”), limitatamente ai lavoratori che aderiscono. Questi ultimi hanno diritto alla NASPI, in presenza dei requisiti oggettivi e soggettivi richiesti dal D.L.vo n. 22/2015, secondo le indicazioni fornite dall’INPS con la circolare n. 111/2020 (richiesta del trattamento di disoccupazione con accordo allegato e dichiarazione di adesione). Il datore di lavoro è tenuto al pagamento del contributo di ingresso alla NASPI nella misura ordinaria. Nell’accordo collettivo che, a mio avviso, va siglato entro il giorno di scadenza del “blocco dei licenziamenti” pur potendo le risoluzioni dei rapporti avvenire in data successiva (e sarebbe opportuno che il Ministero del Lavoro, uscendo dal suo tradizionale silenzio, fornisse qualche indicazione amministrativa scritta), le parti individuano i profili eccedentari e possono (non è un obbligo) identificare il “quantum” a titolo di incentivo all’esodo che può essere diversificato in ragione del profilo professionale, dell’anzianità e delle singole situazioni, non dimenticando anche ipotesi di pensionamento anticipato possibili anche attraverso le procedure del contratto di espansione che, per il 2021, riguarda le imprese con un organico superiore alle 100 unità (limite abbassato dal D.L. n. 73/2021). Nell’accordo, le parti possono anche convenire che i singoli accordi di risoluzione siano sottoscritti “in sede protetta” ex art. 410 o 411 cpc, cosa che evita al lavoratore la procedura telematica di conferma della risoluzione consensuale o delle dimissioni attraverso la procedura telematica individuata dall’art. 26 del D.L.vo n. 151/2015 e dal conseguente D.M. applicativo. L’accordo collettivo può avvenire anche a seguito di procedura collettiva di personale (criterio, concordato, delle risoluzioni consensuali ex art. 5 della legge n. 223/1991) che è possibile in quanto prevista come eccezione alla regola generale: in tale quadro, sempre come eccezione, possono essere riprese anche le procedure individuali ex art. 7 della legge n. 604/1966;
  4. Fallimento, nel caso in cui non vi sia una prosecuzione, anche parziale dell’attività, magari autorizzata dall’autorità giudiziaria. Nel caso vi sia una prosecuzione parziale di attività, restano esclusi dal recesso i dipendenti occupati in tale esercizio.

Ora, rispetto al quadro normativo complessivo, ci sono alcune novità rinvenibili nell’art. 40, commi 3 e 4, del D.L. 25 maggio 2021, n. 73.

Di cosa si tratta?

Il Governo ha previsto (comma 3) per le imprese rientranti nel campo di applicazione, delle integrazioni salariali ordinarie e straordinarie disciplinate dal D.L.vo n. 148/2015 e per le quali cessa di operare “l’ombrello protettivo” delle integrazioni salariali COVID-19, la possibilità, fino al 31 dicembre 2021, di ricorrere agli ammortizzatori ordinari e straordinari senza il pagamento di alcun contributo addizionale che, ricordo, è quantificato dall’art. 5 nella misura del:

  1. 9% della retribuzione globale che sarebbe spettata al lavoratore per le ore non lavorate (e non sulla integrazione salariale anticipata), relativamente ai periodi di integrazione ordinaria o straordinaria fruiti attraverso anche più interventi fino ad un massimo di 52 settimane in un quinquennio mobile;
  2. 12% oltre le 52 settimane, sino ad un massimo di 104 in un quinquennio mobile;
  3. 15% oltre le 104 settimane in un quinquennio mobile.

Al successivo comma 4 si afferma che ai datori di lavoro che presentano istanza di richiesta dell’ammortizzatore sociale non accompagnato dal pagamento del contributo addizionale, restano preclusi, per la durata del trattamento fruito fino al prossimo 31 dicembre, l’avvio di procedure collettive di riduzione di personale, la ripresa di quelle “bloccate” fin dalla data di emanazione del D.L. n. 18/2020 a partire dal 24 febbraio dello scorso anno e, a prescindere dai limiti dimensionali, i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604/1966 e il tentativo obbligatorio di conciliazione disciplinato dal successivo art. 7: ovviamente, sono fatte salve le ipotesi, ripetute oltre che nell’attuale comma 5, anche in precedenti provvedimenti che fanno riferimento ai cambi di appalto, alla cessazione di attività, agli accordi collettivi finalizzati ai recessi per risoluzioni consensuali ed al fallimento senza alcuna prosecuzione di attività.

Ricordo, per completezza di informazione, che l’art. 10 del D.L.vo n. 48/2015 individua i settori delle aziende che rientrano nel campo di applicazione della CIGO, che sono:

  1. Imprese manifatturiere, di trasporti, estrattive, di installazione di impianti, produzione e distribuzione dell’energia, acqua e gas;
  2. Cooperative di produzione e lavoro che svolgano attività lavorative similari a quelle degli operai delle imprese industriali, fatta eccezione delle cooperative ex DPR n. 602/1970, per le quali l’art. 1 del DPR non prevede la contribuzione per la CIG;
  3. Imprese dell’industria boschiva, forestale e del tabacco;
  4. Cooperative agricole, zootecniche e dei loro consorzi che esercitano attività di trasformazione, manipolazione e commercializzazione di prodotti agricoli propri per i soli dipendenti con contratto a tempo indeterminato;
  5. Imprese addette al noleggio e alla distribuzione dei film di sviluppo e stampa di pellicole cinematografiche;
  6. Imprese industriali per la frangitura delle olive per conto terzi;
  7. Imprese produttrici di calcestruzzo preconfezionato;
  8. Imprese addette agli impianti telefonici ed elettrici;
  9. Imprese addette all’armamento ferroviario;
  10. Imprese industriali degli Enti pubblici, salvo il caso in cui il capitale sia interamente di proprietà pubblica;
  11. Imprese industriali ed artigiane dell’edilizia e affini;
  12. Imprese industriali esercenti l’attività di escavazione e/o escavazione di materiale lapideo;
  13. Imprese artigiane che svolgono attività di escavazione e di lavorazione di materiali lapidei, con esclusione di quelle che svolgono tale attività di lavorazione in laboratori con strutture e organizzazione distinte dalle attività di escavazione.

 

Per quel che riguarda la CIGS, l’art. 20 individua i datori di lavoro che possono richiederla. Essi sono:

  1. Le imprese industriali, comprese quelle edili ed affini;
  2. Le imprese artigiane che procedono alla sospensione in conseguenza di sospensioni o riduzioni dell’attività dell’impresa che esercita l’influsso gestionale prevalente. Quest’ultimo viene valutato avendo quali parametri di riferimento gli importi delle fatture dei contratti per l’esecuzione di opere e servizi o produzioni di semilavorati oggetto dell’attività produttiva o commerciale del committente: nel biennio precedente la data di richiesta dell’intervento esso deve aver superato il 50% del complessivo fatturato dell’azienda destinataria delle commesse. Esso viene rilevato (comma 5) dall’elenco dei clienti e dei fornitori ex art. 21, comma 1, del D.L. n. 78/2010 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 che concerne le comunicazioni telematiche all’Agenzia delle Entrate;
  3. Le imprese appaltatrici di sevizi mensa o ristorazione, che subiscano una riduzione di attività in dipendenza di situazioni di difficoltà dell’azienda appaltante, che abbiano comportato per quest’ultima il ricorso al trattamento ordinario o straordinario di integrazione salariale;
  4. Le imprese appaltatrici di servizi di pulizia, anche se costituite in forma cooperativa, che subiscano una riduzione di attività in conseguenza della riduzione di attività dell’azienda appaltante, che abbiano comportato per quest’ultima il ricorso al trattamento ordinario o straordinario di integrazione salariale;
  5. Le imprese dei settori ausiliari del servizio ferroviario, ovvero del comparto della produzione e della manutenzione del materiale rotabile;
  6. Le imprese cooperative di trasformazione di prodotti agricoli e loro consorzi;
  7. Le imprese di vigilanza;
  8. Le imprese cooperative ed i loro consorzi che trasformano e manipolano prodotti agricoli, atteso che il concetto di trasformazione comprende anche il concetto di manipolazione. Tale precisazione è contenuta nella circolare n. 30/2015, la quale ricorda che le imprese agricole ed i loro consorzi che commercializzano prodotti rientrano nel campo di applicazione dell’istituto, con la conseguenza che il relativo trattamento normativo si trova nell’art. 20, comma 2, lettera a (numero medio dei dipendenti, nel semestre precedente, superiore ai 50 dipendenti, compresi gli apprendisti ed i dirigenti).

Se il numero dei dipendenti nel semestre precedente la presentazione dell’istanza è stato mediamente superiore alle 50 unità (compresi i dirigenti e gli apprendisti) la medesima disciplina si applica:

  1. a) Alle imprese esercenti attività commerciali, ivi compresa la logistica;
  2. b) Alle agenzie di viaggio e turismo, compresi gli operatori turistici.

A prescindere dal numero dei dipendenti, la stessa disciplina si applica:

  1. a) Alle imprese di trasporto aereo, a quelle di gestione aeroportuale, a quelle derivate ed alle imprese del sistema aeroportuale;
  2. b) Ai partiti ed ai movimenti politici ed alle loro articolazioni territoriali con alcuni limiti di spesa prefissati. L’integrazione salariale straordinaria per tali soggetti è prevista dall’art. 16 della legge n. 15/2014. L’erogazione della integrazione è subordinata alla iscrizione nel registro previsto dall’art. 4, comma 2, del D.L. n. 149 convertito, con modificazioni, nella legge n. 13/2014. Si tratta di un registro ove i partiti ed i movimenti politici debbono essere iscritti ai soli fini di poter beneficiare delle provvidenze previste dalla legge n. 13. Tale iscrizione viene effettuata dalla “Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza ed il controllo dei rendiconti dei partiti politici”, istituita dall’art. 9, comma 3, della legge n. 96/2012. L’INPS, con messaggio n. 5865 del 23 settembre 2015 ha affermato che i trattamenti di integrazione salariale straordinaria non spettano ai gruppi parlamentari costituiti alla Camera ed al Senato, nonché ai gruppi regionali: il ragionamento fatto dall’Istituto parte dalla constatazione che i gruppi parlamentari, pur costituendo strumenti necessari per lo svolgimento dell’attività parlamentare o regionale non sono finanziati attraverso il sistema dei rimborsi elettorali o attraverso i contributi dei privati cittadini, ma usufruiscono di erogazioni a carico di Camera e Senato (le Regioni per i gruppi regionali). Tutto questo porta alla loro esclusione dalla disciplina dei trattamenti integrativi in quanto non rientrano nell’ambito di applicazione del D.L. n. 149/2013.

 

Questa lunga premessa appare, a mio avviso, utile per comprendere la portata della norma contenuta nel D.L. n. 73.

Dal 1° luglio 2021 resta confermato quanto già affermato con la legge n. 178/2020: in presenza di eccedenze di personale, le imprese che ricadono nel campo di applicazione della Cassa integrazione, possono procedere a riorganizzazioni aprendo procedure individuali e collettive, ma se intendono ricorrere agli ammortizzatori sociali, tale prerogativa viene sospesa per il periodo decorrente dalla presentazione della domanda e per la durata del trattamento fruito: il tutto senza pagamento di alcun contributo addizionale e fino al 31 dicembre 2021.

La prima considerazione da fare riguarda il “blocco condizionato” dei licenziamenti per motivi economici: in passato, esso aveva trovato una sua giustificazione nel fatto che lo Stato, con l’ammortizzatore COVID, si era caricato il costo della permanenza in azienda del personale eccedentario: qui, invece, “il blocco”, in caso di ricorso alla integrazione salariale (con tutte le regole abbastanza forti, presenti nelle varie ipotesi previste dal D.L.vo n. 148/2015), scatta soltanto a fronte del costo, a carico dell’Erario, del solo contributo addizionale previsto dall’art. 5. Ovviamente, nel caso in cui un’azienda dovesse aprire una procedura collettiva di riduzione di personale si troverebbe, presumibilmente, ad affrontare nel corso dell’iter di licenziamenti le resistenze, se non l’opposizione, delle organizzazioni sindacali che chiederebbero il ricorso ad uno degli ammortizzatori disciplinati dal D.L.vo n. 148/2015.

La seconda riflessione concerne quelle aziende che hanno più unità produttive ubicate in territori diversi: il comma 4 fa riferimento “al datore di lavoro”. Ciò significa, stando al tenore letterale della norma, che la richiesta e la successiva fruizione di ammortizzatori ex D.L.vo n. 148/2015 per una sola unità produttiva produce il “blocco” dei licenziamenti nell’impresa nel suo complesso.

La terza considerazione riguarda la durata del blocco dei licenziamenti: chi ha scritto la disposizione, probabilmente, aveva presenti richieste di crisi aziendale o di riorganizzazione (quindi CIGS) con interventi abbastanza lunghi: si dà il caso che questi ultimi potrebbero essere molto più brevi se si prendono in considerazione le causali per l’integrazione ordinaria previste dall’art. 11 che si riferiscono a:

  1. Situazioni aziendali dovute ad eventi di natura transitoria e non imputabili all’impresa od ai lavoratori, incluse le intemperie stagionali. Tra di esse rientrano, senz’altro, la mancanza di lavoro intesa come mancanza o rarefazione di commesse, la crisi di mercato, la mancanza di materie prime non dipendente da inadempienze contrattuali, l’interruzione di energia elettrica dovuta a fatto dell’Ente erogatore, incendio, eventi naturali diversi dalle intemperie (ad esempio, alluvioni, terremoti, ecc.), incendi, sciopero “a monte” con mancanza di materie necessarie per la lavorazione, guasti di macchinari (nonostante la ordinaria manutenzione), perizia di variante o suppletiva dipendente da fatti imprevedibili, ordine di pubblica autorità non ascrivibile a comportamento inadempiente dell’imprenditore come, ad esempio, la sospensione dell’attività imprenditoriale ex art. 14 del D.L.vo n. 81/2008;
  2. Situazioni temporanee di mercato, come la crisi che non deve dipendere da mancanze strutturali dell’impresa.

Le causali non integrabili sono diverse e, senza avere la pretesa della esaustività, se ne elencano alcune:

  1. Ferie collettive;
  2. Manutenzione ordinaria e disinfestazione periodica;
  3. Inventario;
  4. Sciopero aziendale;
  5. Soste stagionali e contrazioni ricorrenti nelle aziende che ciclicamente riducono l’orario di lavoro, attesa la natura del processo produttivo;
  6. Licenziamenti: non è integrabile l’ipotesi se già nella richiesta si ritiene che al termine del periodo integrato i lavoratori (o alcuni di essi) vengano licenziati. L’integrazione ordinaria presuppone, infatti, una ripresa sia pure minima dell’attività aziendale.

Un’ultima questione riguarda il momento rispetto al quale scatta il blocco dei licenziamenti.

Esso opera dal momento in cui, come detto in precedenza, viene presentata l’istanza di integrazione salariale, in via telematica: di conseguenza, gli eventuali recessi adottati prima restano fuori e, per una eventuale impugnativa degli stessi, occorrerà rifarsi alle norme che disciplinano i licenziamenti.

Autore

Eufranio Massi
Eufranio Massi 324 posts

E' stato per 40 anni dipendente del Ministero del Lavoro. Ha diretto, in qualità di Dirigente, le strutture di Parma, Latina, i Servizi Ispettivi centrali, Modena, Verona, Padova e Piacenza. Collabora, da sempre, con riviste specializzate e siti web sul tema lavoro tra cui Generazione vincente blog.

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