Le dimissioni per giusta causa

Le dimissioni per giusta causa

Ci sono situazioni, non molto infrequenti nel rapporto di lavoro, ove il lavoratore viene a trovarsi in una situazione nella quale è, nella sostanza, costretto a presentare le dimissioni per giusta causa che incide, irreparabilmente, sul rapporto fiduciario.

Tale ipotesi trova una forma di tutela da parte dell’ordinamento, sia sotto l’aspetto delle specifiche causali che nella concreta possibilità di ottenere un trattamento di NASPI del tutto analogo a quello spettante ai lavoratori licenziati.

Nella riflessione che segue cercherò, sia pure succintamente, di mettere in evidenza le questioni operative e le problematiche connesse.

Le dimissioni per giusta causa da un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, trovano il supporto normativo nell’art. 2119 c.c.: in presenza di un grave inadempimento del datore di lavoro, il lavoratore ha diritto di recedere, con effetto immediato, dal rapporto, senza alcuna prosecuzione, neanche provvisoria e senza, ovviamente, essere tenuto a prestare la sua attività nel periodo di preavviso previsto dal contratto collettivo. Le dimissioni, che sono pur sempre un atto unilaterale ricettizio, dopo la riforma intervenuta con l’art. 26 del D.L.vo n. 151/2001 e con il D.M. 15 dicembre 2015, debbono avvenire nell’unico modo possibile, ossia attraverso la compilazione del modello telematico. Ciò va fatto, autonomamente, dall’interessato (che deve essere in possesso del PIN INPS) o con l’ausilio di uno dei c.d. “soggetti intermediari” (patronati, organizzazioni sindacali, enti bilaterali, funzionari dell’Ispettorato territoriale del Lavoro, commissioni di certificazioni, consulenti del lavoro). Il modello, sottoscritto con una serie di garanzie, viene inviato al datore e la risoluzione diviene efficace nel momento in cui lo stesso viene ricevuto nella casella di posta elettronica dello stesso. Qualunque modalità diversa renderebbe assolutamente inefficaci le dimissioni. Nel modello telematico va inserita la motivazione “dimissioni per giusta causa”.

Chiarito questo aspetto va sottolineato che le dimissioni per giusta causa oltre a non consentire la prosecuzione del rapporto, non sono, di per se stesse, compatibili con un “differimento dell’effetto risolutivo” (Cass., 29 gennaio 1976, n. 285; Cass., 15 maggio 1980 n. 3222): una eventuale disponibilità del lavoratore ad assicurare, in tutto o in parte, la propria prestazione durante il periodo di preavviso, fa sì che le dimissioni stesse non possano essere connotate da giusta causa (Cass., 9 aprile 2014, n. 8361). Va, tuttavia, considerato come la stessa Suprema Corte (Cass., 23 maggio 1998, n. 5146) abbia ritenuto sussistente la giusta causa pur in presenza del posticipo delle dimissioni, motivate dal rispetto dei principi di correttezza e buona fede, in considerazione della particolare posizione di responsabilità rivestita dal prestatore all’interno dell’organizzazione dell’impresa.

Le dimissioni per giusta causa generano alcuni diritti in capo al lavoratore subordinato che possono così sintetizzarsi:

  1. indennità sostitutiva del preavviso direttamente rapportata al periodo previsto dalla contrattazione collettiva;
  2. indennità di NASPI (che va richiesta, in via telematica, all’INPS, entro il termine di decadenza di 68 giorni decorrenti dalla cessazione del rapporto) in presenza dei presupposti indicati dall’art. 3 del D.L.vo n. 22/2015 che sono ravvisabili nello stato di disoccupazione, in almeno 13 settimane di contribuzione nei 4 anni antecedenti l’inizio del periodo di disoccupazione, in 30 giorni di lavoro effettivo, a prescindere dal minimale contributivo, nei 12 mesi precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione.

La circolare dell’INPS 20 ottobre 2003, n. 163 e la giurisprudenza hanno identificato una serie di ipotesi che concretizzano la figura della giusta causa nelle dimissioni:

  1. reiterato mancato pagamento della retribuzione (Cass., 26 gennaio 1988, n. 648);
  2. molestie sessuali sul luogo di lavoro (Trib. Milano, 16 giugno 1999) e pretesa di prestazioni illecite;
  3. modificazioni fortemente peggiorative delle mansioni, tali da pregiudicare la vita professionale del lavoratore (Cass., 13 giugno 2014, n. 13485): ovviamente non ci si trova, in questo caso, di fronte alle legittime ipotesi di demansionamento previste dal nuovo art. 2103 c.c. ed a quelle tutelate, ad esempio, dall’art. 4,comma 4 e 10, comma 3, della legge n. 68/1999 (lavoratori disabili) e dall’art. 41, comma 6, e 42 del D.L.vo n. 81/2008( inidoneità accertata dal medico competente a seguito di visita sanitaria ed adibizione a mansioni inferiori conseguenti, con la conservazione del trattamento economico);
  4. mobbing, consistente in condotte vessatorie e reiterate poste in essere da superiori gerarchici o colleghi, le cui caratteristiche risiedono nella protrazione, nel tempo, di una serie di comportamenti con tali caratteristiche e con la volontà di giungere ad una sorta di emarginazione del lavoratore;
  5. notevole variazioni nelle condizioni di lavoro susseguenti alla cessione dell’azienda o ramo di essa, anche attraverso la forma dell’affitto (art. 2112 c.c.);
  6. spostamento del lavoratore da una unità produttiva all’altra senza che siano sussistenti le “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” richieste dal nuovo art. 2103 c.c., come riscritto dall’art. 3 del D.L.vo n. 81/2015;
  7. comportamento ingiurioso del superiore gerarchico nei confronti dell’interessato (Cass., 11 febbraio 2000, n. 1542; Cass., 29 novembre 1985, n. 5977).

Senza entrare nel merito del trattamento di NASPI, ricordo che lo stesso è rapportato (art. 4 del D.L.vo n. 22/2015 e circolare INPS 12 maggio 2015, n. 94) ad un calcolo determinato dalla retribuzione imponibile ai fini previdenziali dell’ultimo quadriennio, comprensiva degli elementi continuativi e non continuativi e delle mensilità aggiuntive, divisa per il totale delle settimane di contribuzione, indipendentemente dal minimale, e moltiplicata per il coefficiente 4,33. Le settimane vanno calcolate per intero pur se non risultano completamente lavorate. Se il calcolo relativo al 2017 è pari od inferiore a 1.1.95 euro mensili, l’indennità è pari al 75% della retribuzione; se superiore la predetta indennità è incrementata di una somma pari al 25%  della differenza tra la retribuzione mensile ed il predetto importo, con un tetto fissato in 1300 euro mensili (circolare INPS 21 febbraio 2017, n. 36). A partire dal quarto mese l’indennità che dura, al massimo, 2 anni (numero di settimane pari alla metà di quelle contribuite negli ultimi 4 anni) viene ridotta progressivamente del 3% al mese.

Un’altra questione che negli anni, si è più volte presentata concerne il possibile risarcimento del danno che il lavoratore dimissionario per giusta causa potrebbe avanzare nei confronti del datore di lavoro, essendo, del tutto, escluso (Cass., 25 marzo 1996, n. 2632) che le dimissioni per giusta causa possano essere equiparate al recesso datoriale ai fini della applicabilità delle sanzioni in materia di licenziamento illegittimo.

Due sono gli orientamenti: quello maggioritario (Cass., 7 novembre 2001, n. 13782) seguito anche dalla dottrina, ritiene che il prestatore non possa ottenere altro che l’indennità di mancato preavviso, mentre un altro seguito, tra gli altri, da un’altra sezione della Suprema Corte (Cass., 2 febbraio 1998, n. 1021) sostiene che, secondo le regole generali, il lavoratore è abilitato a chiedere il risarcimento, dimostrando, nel concreto, che la propria volontà, seppur libera, è stata, coartata, da una serie di situazioni afferibili al comportamento del datore di lavoro.

Ovviamente, un eventuale risarcimento è sempre possibile qualora l’inadempimento datoriale in materia di salute e sicurezza sul lavoro abbiano comportato seri pregiudizi allo stato di salute del prestatore (Cass., 20 aprile 1998, n. 4012). In tale ipotesi l’onere a carico del lavoratore consiste nel provare l’esistenza di un nesso di causalità tra l’evento dannoso e l’attività lavorativa svolta.

Il datore di lavoro, è, come affermavo pocanzi, tenuto a corrispondere l’indennità sostitutiva del preavviso il cui calcolo (art. 2121 c.c.) deve tenere conto della retribuzione in atto al momento della cessazione del rapporto, comprensiva degli elementi che presentano una natura continuativa.

Questo, tuttavia, non è il solo onere “emergente”: alla luce della previsione contenuta nei commi che vanno da 31 a 35 della legge n. 92/2012 occorre versare il c.d. “contributo di ingresso alla NASPI”, pari al 41% del massimale mensile di disoccupazione per ogni 12 mesi di anzianità aziendale, con proporzionamento in base al numero dei mesi di durata del contratto (se il rapporto è cessato oltre il 15, si calcola il mese intero), con un tetto massimo fissato in 3 anni di anzianità aziendale: esso prescinde dal fatto che il rapporto si sia svolto a tempo pieno o a tempo parziale. L’importo massimo, rapportato a 36 mesi di anzianità aziendale è pari a 1469,95 euro (valore anno 2017): quale che sia l’importo, i termini per il versamento, come ricorda l’INPS nella circolare n. 44 del 22 marzo 2013, sono quelli della denuncia successiva a quella del mese in cui si sono registrate le dimissioni per giusta causa (e, in via generale, il licenziamento). Il mancato versamento del “ticket” è sottoposto alla normale disciplina sanzionatoria in essere relativa al mancato versamento della contribuzione a carico del datore, che trova la propria fonte normativa nell’art. 116 della legge n. 388/2000.

 

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Autore

Eufranio Massi
Eufranio Massi 345 posts

E' stato per 40 anni dipendente del Ministero del Lavoro. Ha diretto, in qualità di Dirigente, le strutture di Parma, Latina, i Servizi Ispettivi centrali, Modena, Verona, Padova e Piacenza. Collabora, da sempre, con riviste specializzate e siti web sul tema lavoro tra cui Generazione vincente blog.

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