Il contratto di espansione: novità e questioni operative [E.Massi]

La legge n. 58/2019 prevede l’adozione di una nuova misura a sostegno della riconversione tecnologica delle aziende con oltre 1.000 dipendenti. Si tratta del contratto di espansione con cui si facilita l’innovazione tecnologica all'interno delle imprese attraverso un turnover generazionale

Il contratto di espansione: novità e questioni operative [E.Massi]

Con l’art. 26-quater del D.L. n. 34/2019 convertito, con modificazioni, nella legge n. 58, il Legislatore ha mandato “definitivamente” in soffitta il contratto di solidarietà espansiva, riveduto e corretto dall’art. 41 del D.L.vo n. 148/2015 e previsto in via strutturale, e lo ha sostituito con il contratto di espansione, la cui vigenza è, al momento, prevista per gli anni 2019 e 2020. In questa operazione, però, viene ben identificato il nuovo campo di applicazione della norma: il nuovo art. 41 riguarda, unicamente, le imprese con un organico superiore ai 1.000 dipendenti impegnate in processi di reindustrializzazione e riorganizzazione, finalizzate al progresso ed allo sviluppo tecnologico delle attività, cosa che comporterà, a regime, un impiego più razionale del personale e l’assunzione di nuove professionalità.

Gli effetti prodotti dai contratti di solidarietà espansiva sottoscritti entro il 29 giugno 2019, unitamente alle relative agevolazioni, continuano a produrre effetti fino alla naturale scadenza.

L’esame che segue, rappresenta, indubbiamente, una prima riflessione sulle nuove disposizioni e necessiterà, per una serie di questioni meritevoli di approfondimenti, di chiarimenti orientativi da parte del Ministero del Lavoro, la cui struttura appare coinvolta per almeno tre Direzioni Generali (Previdenza, Ammortizzatori Sociali e Relazioni Industriali): ovviamente, anche l’INPS ha un ruolo primario che non è soltanto quello correlato al monitoraggio della spesa. Si tratta, infatti, di un provvedimento che “mixa” diversi istituti importanti utilizzati in situazioni diverse: mi riferisco alla deroga massima degli interventi straordinari, allo “scivolo” verso la pensione di vecchiaia od anticipata accompagnata da una indennità mensile erogata dal datore di lavoro, alla formazione ed alla riqualificazione professionale, all’assegno di ricollocazione e ad un piano di nuove assunzioni.

Entrando nel merito di quanto affermato dal nuovo art. 41, il Legislatore afferma che l’impresa interessata deve avviare una procedura di consultazione finalizzata, successivamente, a sottoscrivere presso il Ministero del Lavoro (sicuramente, la Direzione Generale dei Rapporti di Lavoro e delle Relazioni Industriali) un contratto di espansione con le associazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o con le “loro” RSA o la RSU.

Per la procedura di consultazione viene richiamato l’art. 24 del D.L.vo n. 148/2015 che fissa sia i termini che le modalità.

Va, innanzitutto, ricordato come la comunicazione debba essere tempestiva (concetto che, senza indicazione di un termine, va correlato con la situazione aziendale) e debba essere inviata, direttamente o tramite l’associazione di categoria alla quale l’impresa aderisce o conferisce mandato, alle RSA o alle RSU e, dal momento che sono direttamente chiamate in causa, alle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Nella nota vanno evidenziati i processi riorganizzativi che si intendono porre in essere ed i conseguenti piani da sviluppare.

Alla comunicazione segue l’esame congiunto della situazione aziendale che va chiesto da una delle parti entro i 3 giorni successivi.  La procedura ha tempi estremamente “cadenzati” nel senso che si deve concludere, entro i 25 giorni (il termine ridotto di 10 giorni non ha senso, tenuto conto dei limiti dimensionali dell’impresa richiedente).

Il comma 2 del nuovo articolo 41 detta i contenuti dell’accordo che viene definito di “natura gestionale”. Il contratto “gestionale” è quello che, in genere, si stipula per il ricorso alle integrazioni salariali, ai licenziamenti collettivi o ai trasferimenti di azienda: si tratta di ipotesi nelle quali le norme prevedono una articolata procedura informativa. Gli accordi di tale tipo sono applicabili a tutti i lavoratori a prescindere che siano o meno iscritti alle organizzazioni sindacali che li hanno sottoscritti. A mio avviso, anche in relazione ai contenuti dell’accordo che elencherò tra breve, ritengo che sia necessario aprire una procedura collettiva di riduzione di personale (lasciandola, magari, anche sospesa per un certo periodo) ai sensi degli articoli 4 e 24 della legge n. 223/1991: infatti una serie di notizie e, anche la individuazione, dei lavoratori eccedentari destinatari di licenziamenti non ostativi, non può prescindere da tale iter.

L’accordo, afferma il predetto comma 2, deve contenere:

  • il numero dei lavoratori da assumere e l’indicazione dei profilli professionali compatibili con i piani di reindustrializzazione o riorganizzazione. A differenza del vecchio art. 41 relativo alla solidarietà espansiva che vincolava il numero delle nuove assunzioni alla riduzione strutturale dell’orario di lavoro, qui tale raccordo non c’è e, quindi, l’ammontare dei nuovi ingressi viene determinato secondo le necessità aziendali, contrattate con le organizzazioni sindacali;
  • i tempi di inserimento dei nuovi lavoratori;
  • l’indicazione della durata dei contratti a tempo indeterminato che comprende anche l’apprendistato professionalizzante. La durata “minima” garantita del contratto a tempo indeterminato (cosa che, a prima vista, appare un contro senso) non è nuova nel nostro ordinamento essendo, ad esempio, stata prevista, in alcuni provvedimenti di “sanatoria” (quindi, ipotesi del tutto diverse) come l’art. 54, comma 1, lettera b) del D.L.vo n. 81/2015 o l’art. 1, comma 1210, della legge n. 296/2006;
  • relativamente alle professionalità in organico, la riduzione media dell’orario di lavoro e il numero dei lavoratori interessati, nonché il numero dei lavoratori che possono accedere al trattamento pensionistico secondo le modalità esplicitate al comma 5 che viene individuato come uno dei cardini del contratto di espansione.

Il successivo comma 3 parla di trattamenti integrativi straordinari in deroga rispetto alle previsioni degli articoli 3 e 6 del D.L.vo n., 148/2015. Tale periodo non può essere superiore a diciotto mesi, anche non continuativi.

L’art. 3 fa riferimento alla misura dell’integrazione salariale e l’art. 6 alla contribuzione figurativa: i periodi di sospensione o di riduzione di orario danno diritto alla contribuzione figurativa e sono riconosciuti utili ai fini del conseguimento della pensione di vecchiaia e di quella anticipata. Per tali periodi la contribuzione figurativa viene calcolata, in via generale, sulla base della retribuzione globale alla quale si riferisce la somma integrativa riconosciuta.

Null’altro, sul punto, afferma il Legislatore (di qui la necessità di chiarimenti amministrativi da parte del Ministero del Lavoro): si può affermare, tuttavia, che trattandosi di trattamenti straordinari in deroga rispetto al tetto massimo previsto, il contributo addizionale non potrà che assestarsi sull’aliquota del 15%.

Il comma 4 attribuisce un compito di verifica al Ministero del Lavoro, cosa che, presumibilmente, almeno in talune situazioni, comporterà un intervento degli ispettori delle articolazioni periferiche dell’Ispettorato Nazionale del lavoro (se così sarà, saranno necessarie precise indicazioni per tali organi). La verifica, che deve avvenire prima della stipula del contratto di espansione da sottoscrivere in sede ministeriale, riguarderà il progetto di formazione e di riqualificazione ed il numero di nuove assunzioni previste.

Su tali questioni, ed in attesa degli auspicabili chiarimenti, si pone una questione non secondaria riferita alle imprese che sono articolate su più unità produttive: il progetto di formazione e riqualificazione deve interessare, indistintamente, tutte le realtà produttive o soltanto alcune di esse? A mio avviso, la risposta razionale è la seconda, potendo il progetto formativo interessare soltanto alcuni siti, fermo restando, però, in un’ottica complessiva, la possibilità di far accedere “allo scivolo pensionistico”, di cui parla il successivo comma 5, anche dipendenti di altre unità produttive in possesso dei requisiti soggettivi.

Il comma 5 rappresenta, a mio avviso, il “cuore” del provvedimento con il quale si cerca di correggere una previsione, quella della c.d. “isopensione” prevista dall’art. 4, commi da 1 a 7-ter, della legge n. 92/2012, i cui costi pesanti, ne hanno scoraggiato la utilizzazione.

Ma, cosa afferma, nel concreto, la disposizione?

Per i lavoratori che si trovano a non più di cinque anni dalla maturazione del diritto alla pensione di vecchiaia che abbiano almeno venti anni di contribuzione, o anticipata (art. 24, comma 10, del D.L. n. 201/2014 convertito, con modificazioni, nella legge n. 214, 41 anni e 10 mesi per l’uomo e 41 e 10 mesi per la donna secondo la previsione ora indicata dall’art. 15, comma 2, del D.L. n. 4/2019), previo licenziamento “non oppositivo” (quindi, individuato come criterio ex art. 5 della legge n. 223/1991) e previo esplicito consenso in forma scritta da parte di ogni singolo interessato, il datore di lavoro riconosce per tutto il periodo fino al raggiungimento del primo diritto a pensione, una indennità mensile, comprensiva del trattamento di NASPI, se spettante, commisurata al trattamento pensionistico lordo maturato dal dipendente all’atto della cessazione del rapporto, così come determinato dall’INPS. Qualora il pensionamento avvenga sulla base del diritto al trattamento anticipato, l’imprenditore sarà tenuto a versare anche i contributi previdenziali utili al raggiungimento del trattamento, con esclusione del periodo già coperto dalla contribuzione figurativa a seguito della risoluzione del rapporto di lavoro (ad esempio, quella susseguente alla fruizione della NASPI).

Il tutto però non è senza limite: infatti il Legislatore, affidando all’Istituto il monitoraggio, anche in via prospettica, della spesa complessiva, prevede alcuni limiti annuali:

  • 4,4 milioni per il 2019;
  • 11,9 milioni per il 2020;
  • 6,8 milioni per il 2021.

Tali vincoli sono, assolutamente, cogenti, nel senso che se in sede di consultazione, prioritaria all’accordo, il Ministero del Lavoro (“rectius” la Direzione Generale dei Rapporti di Lavoro e delle Relazioni Industriali) si dovesse accorgere di un possibile sforamento del tetto massimo di spesa previsto, non si potrà stipulare il contratto e l’accesso al pensionamento previsto nello stesso non potrebbe avere alcun effetto.

Quanto appena, sommariamente, detto, richiede, a mio avviso, alcune riflessioni

Il Legislatore parla di “licenziamenti concordati”, rafforzati da una adesione scritta da parte degli interessati. Quest’ultima, proprio per avere maggiore efficacia, potrebbe avvenire “in sede protetta” ex art. 410 o 411 cpc.

La singolarità della procedura collettiva di riduzione di personale che si conclude con una serie di licenziamenti “non ostativi” ove i lavoratori interessati “scivolano verso la pensione” accompagnati dall’indennità mensile, fa scattare la sospensione degli obblighi occupazionali che si verifica ex art. 3, comma 5, della legge n. 68/1999 allorquando si verificano almeno cinque licenziamenti? Stando al tenore letterale della norma appena richiamata, la risposta sarebbe positiva, ma mio avviso (e, comunque, sarà necessario sentire i chiarimenti ministeriali, se ci saranno) essa potrebbe essere negativa, perché la sospensione degli obblighi di assunzione è correlata all’esercizio del diritto di precedenza alla riassunzione da parte dei dipendenti oggetto di recesso a seguito delle difficoltà aziendali. Nel caso di specie, i lavoratori sono usciti dall’azienda per andare in pensione ed, inoltre, il contratto per espansione prevede anche un piano di assunzioni che potrebbe ipotizzare anche l’inserimento di personale disabile. Resta impregiudicata, comunque, per il datore di lavoro la possibilità di una convenzione con i servizi per l’impiego ex art. 11 della legge n. 68/1999 finalizzata a “cadenzare” nel tempo le assunzioni d’obbligo.

Ovviamente, trattandosi di una facoltà concessa ai lavoratori, si potrebbe verificare, a regime, che la risoluzione del rapporto in termini “non ostativi” riguardi, anche in percentuale maggiore sia i disabili che il personale femminile, sicché i principi della c.d. “proporzionalità” previsti nelle procedure collettive potrebbero non essere rispettati.

L’impresa che procede ai licenziamenti “non ostativi” che avvengono con un accordo sindacale è tenuta a pagare per ogni dipendente che cessa il rapporto, il c.d. “ticket di ingresso alla NASPI” (per chi ha una anzianità pari o superiore a trentasei mesi l’importo relativo all’anno 2019 è pari a 3.004,74 euro, trattandosi di licenziamento collettivo, concordato).

Ma, quanto deve erogare il datore di lavoro per ogni lavoratore interessato al trattamento pensionistico?

Il Legislatore parla di un importo lordo commisurato al trattamento pensionistico maturato all’atto della cessazione del rapporto, accertato dall’INPS. Ciò significa che il raccordo continuo con l’Istituto deve portare alla identificazione di una somma che, ovviamente, non sarà uguale per tutti i dipendenti interessati.

Con un occhio rivolto anche ai Fondi di solidarietà bilaterali esistenti o in corso di costituzione secondo la previsione dell’art. 26 del D.L.vo n. 148/2015, il comma 6 afferma che le prestazioni possono essere fornite e riconosciute anche da tali Enti senza che scatti l’obbligo di modifica dei loro atti costitutivi (in tal modo si cerca di “annullare” i tempi burocratici legati alla approvazione ministeriale delle modifiche).

Il successivo comma 7, che va correlato per la durata con il precedente comma 3, chiama in causa gli ammortizzatori sociali straordinari in favore di quei lavoratori che non sono nelle condizioni di beneficiare dello “scivolo pensionistico”: per costoro l’intervento integrativo è nella misura dell’80% della retribuzione globale che sarebbe spettata per le ore non prestate comprese tra zero ore ed il limite orario contrattuale. Le modalità di quantificazione dell’ammontare del trattamento integrativo in relazione alla dislocazione oraria della prestazione ed alle modalità di erogazione della retribuzione, ivi comprese le indennità accessorie rispetto alla retribuzione base, restano identiche rispetto alle altre ipotesi.

La misura del trattamento è soggetta agli stessi obblighi contributivi già esistenti come l’art. 26 della legge n. 41/1986 che prevede una riduzione dell’ammontare del trattamento pari al 5,84%. L’ammontare massimo dell’integrazione salariale non può superare i c.d. “massimali” ex lege n. 427/1980, secondo le modalità già applicate in base alla normativa vigente e soggetti a rivalutazione annuale. Per quel che riguarda la contribuzione, l’intervento integrativo richiama quella figurativa.

La riduzione media oraria non può essere superiore al 30% dell’orario giornaliero, settimanale o mensile per i dipendenti che rientrano nel contratto di espansione. La norma continua affermando (e qui occorrerebbe un chiarimento finalizzato a capire il significato) che per ciascun lavoratore, la percentuale di riduzione dell’orario di lavoro può arrivare, se necessario, e previo accordo, fino al 100% nell’arco temporale di vigenza dei contratti di espansione.

Anche in questo caso il Legislatore pone un tetto economico affidando all’INPS il monitoraggio delle spese con onere di riferire, puntualmente, ai Dicasteri dell’Economia e del Lavoro. La spesa viene quantificata in:

  • 15,7 milioni per il 2019;
  • 31,8 milioni per il 2020.

Passo ora ad esaminare il contenuto del comma 8, anche questo fondamentale nell’impianto normativo.

L’impresa deve presentare un progetto di qualificazione e riqualificazione professionale del personale interessato: esso si intende assolto, attraverso una certificazione i cui termini e contenuti saranno definiti in via amministrativa (si spera, presto), anche allorquando siano stati impartiti insegnamenti per il conseguimento di una diversa competenza tecnica professionale, rispetto a quella originaria, utilizzando l’opera del lavoratore in azienda (sembra prefigurarsi il ritorno alla formazione “in the job”). Il progetto deve garantire effettivamente la formazione necessaria e deve specificare il numero dei lavoratori interessati e quello delle ore, le competenze tecniche iniziali e quelle finali e va distinto per categorie. La disposizione garantisce, altresì, il rispetto di quanto previsto dall’art. 1, comma 1, lettera f) del D.M. n. 94033 del 13 gennaio 2016. Ciò significa che nel programma vanno indicate le previsioni del recupero occupazionale dei lavoratori interessati alle riduzioni o alle sospensioni di orario nella misura almeno del 70%. Il recupero occupazionale ricomprende nella predetta percentuale sia i dipendenti che rientrano nella propria unità produttiva, ma anche quelli che sono stati riassorbiti in altre unità della stessa impresa o di altre imprese, nonchè quelli che sono usciti dal contesto aziendale attraverso “scivoli pensionistici”, “licenziamenti non oppositivi” o risoluzioni consensuali. Se dovessero sussistere altri esuberi strutturali, dovranno essere indicate le modalità di gestione.

Nei casi appena prospettati si prefigura un controllo da parte degli Ispettorati territoriali del Lavoro, secondo indicazioni amministrative che dovrebbero pervenire dal Ministero del Lavoro o dalla stessa struttura Nazionale dell’Ispettorato.

Il comma 8, facendo riferimento unicamente ai lavoratori interessati ai piani formativi, parla anche di applicazione, per quanto compatibile, delle misure previste dall’art. 24-bis del D.L.vo n. 148/2015 che tratta dell’assegno di ricollocazione. A mio modesto avviso, tale disposizione si attaglia maggiormente alla gestione dei lavoratori eccedentari e non a quelli coinvolti in un piano formativo di riqualificazione: di qui la necessità di un chiarimento amministrativo.

Per completezza di informazione ricordo che l’art. 24 bis relativo all’assegno di ricollocazione prevede, tra le altre cose, una serie di passaggi che riguardano direttamente sia il lavoratore che il proprio datore di lavoro che, infine, anche l’azienda destinata ad assumerlo: accordo tra azienda e organizzazione sindacale sui profili e le categorie ritenute eccedentarie, adesione volontaria degli interessati, risoluzione del rapporto di lavoro con il “non pagamento dell’IRPEF” fino ad un massimo di nove mensilità sulle somme erogate quale incentivo all’esodo, inserimento degli interessati (che continuano a percepire il trattamento integrativo) nelle ricerche di finalizzate all’occupazione di Enti accreditati (Agenzie per il Lavoro, ecc.) e centri per l’impiego, incentivi per chi assume i lavoratori (diciotto mesi di agevolazione contributiva pari a 4.030 euro annui), percezione, da parte degli interessati, del 50% della residua integrazione salariale se ancora erogata.

L’accordo di espansione (comma 9) con l’indicazione dei lavoratori percettori dell’indennità di accompagnamento alla pensione anticipata o di vecchiaia, deve essere depositato, telematicamente, entro trenta giorni, presso il Ministero del Lavoro: si tratta di un passaggio “formale” da cui dipende la efficacia delle misure. L’articolato ricorda, altresì (l’esperienza degli “esodati” è servita a qualche cosa) che per i lavoratori inseriti nell’elenco, leggi successive od altri provvedimenti non possono modificare i requisiti per il conseguimento del diritto alla pensione vigente al momento della scelta effettuata.

Il comma 10 afferma che il contratto di espansione è compatibile con l’utilizzo di altri strumenti previsti dal D.L.vo n. 148/2015, compresa la previsione che rinvia all’art. 7 del D.M. n. 46448/2009  del Ministero del Lavoro ove si afferma che il limite massimo di fruizione del trattamento integrativo salariale (il riferimento era all’art. 1, comma 9, della legge n. 223/1991) può essere superato qualora il ricorso al contratto di solidarietà abbia “la finalità di strumento alternativo alla procedura per la dichiarazione di mobilità (ora, “di riduzione collettiva di personale”) di cui all’art. 4 della legge n. 223/1991”.

L’articolato si conclude, infine, con alcune norme tecniche di ripartizione degli oneri economici derivanti dall’applicazione delle nuove norme, tra i vari capitoli di spesa.

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Eufranio Massi
Eufranio Massi 324 posts

E' stato per 40 anni dipendente del Ministero del Lavoro. Ha diretto, in qualità di Dirigente, le strutture di Parma, Latina, i Servizi Ispettivi centrali, Modena, Verona, Padova e Piacenza. Collabora, da sempre, con riviste specializzate e siti web sul tema lavoro tra cui Generazione vincente blog.

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