I limiti del contratto di prossimità secondo la giurisprudenza
L'editoriale di Eufranio Massi
La funzione derogatoria dell’art. 8 D.L. 138/2011
Spesso, tra gli addetti ai lavori, si parla del contratto di prossimità previsto dall’art. 8 del D.L. n. 138/2011, come di uno strumento di flessibilità finalizzato a superare, attraverso la contrattazione di secondo livello, alcune rigidità previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva.
La questione, però, non è così semplice, nel senso che l’intervento derogatorio su alcuni istituti espressamente previsti (è il comma 2 a delinearli chiaramente) va, necessariamente, correlato al raggiungimento di obiettivi di scopo che, il comma 1 indica come, ad esempio, maggiore occupazione, mezzo per affrontare crisi aziendali, incremento della produzione legata alla redditività ed altro ancora.
L’eccezionalità della norma ribadita dalla giurisprudenza
Nella sostanza, le deroghe legali alla legge sono specifiche e non possono essere “allargate” con interpretazioni espansive.
A ciò va aggiunto che, il contratto di prossimità, è stato, sovente, esaminato con particolare cura dalla giurisprudenza di merito e anche la Consulta, con due sentenze del 2012 e del 2023, ha avuto modo di occuparsene, rimarcando la eccezionalità della disposizione.
Applicazione erga omnes del contratto di prossimità
Il contratto di prossimità è, a differenze dei “normali” contratti aziendali, un contratto che si applica “erga omnes” e, quindi, anche ai lavoratori iscritti ad un sindacato che, magari, ha dissentito circa il contenuto dello stesso.
Il limite invalicabile della contribuzione previdenziale
Un limite al contratto di prossimità si riscontra, inoltre, nel fatto che le parti che lo sottoscrivono non possono, in alcun modo, intervenire sugli aspetti previdenziali del rapporto.
Di tale ultimo indirizzo è espressione l’ordinanza n. 19467/2025 della Corte di Cassazione la quale ha sottolineato come tale accordo non possa derogare in senso peggiorativo le norme che regolano il minimale contributivo ai fini previdenziali già stabilite dall’art. 1 del D.L. n. 338/1989 il quale, tra le altre cose, fa riferimento ai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale.
Funzione pubblica del minimale contributivo
Il contratto di prossimità, pur essendo espressione dell’autonomia collettiva non può riverberare i propri effetti sulla contribuzione che, per legge, è dovuta ad un soggetto terzo (INPS), atteso che il minimale contributivo svolge una funzione pubblica di tutela previdenziale.
Del resto, un esame sistemico di quanto affermato dai commi 1 e 2 dell’art. 8, per quanto ampia sia la materia del possibile intervento, non può giungere a toccare la contribuzione, pur se le retribuzioni (per affrontare un momento di crisi aziendale) possono essere ridotte (almeno entro certi limiti che non tocchino i principi stabiliti dall’art. 36 della Costituzione).
Il riferimento al CCNL applicabile
L’eventuale retribuzione ridotta non può ridurre la contribuzione minimale che deve restare integra, attesa la sua funzione sociale.
Ma, nella moltitudine di contratti che regolamentano il mondo del lavoro nel nostro Paese, quale è il CCNL a cui occorre far riferimento?
Secondo la Cassazione, occorre riferirsi a quello che risulta essere più vicino all’attività svolta dall’impresa, ovviamente sottoscritto dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori che presentano i requisiti richiesti dall’art. 1 del D.L. n. 338/1989.
Le due conseguenze operative individuate dalla Cassazione
Da quanto appena detto discendono alcune considerazioni.
La prima concerne l’individuazione di un contratto collettivo diverso rispetto al settore ed alle mansioni esercitate dai dipendenti, pur se, per alcuni versi, più favorevole, anche valutando l’aspetto normativo e non soltanto quello economico: secondo i giudici di Piazza Cavour, per quel che riguarda il minimale contributivo, il riferimento non è valido.
La seconda riguarda l’applicazione di CCNL sottoscritti da associazioni sindacali non rappresentative o l’applicazione di accordi aziendali di deroga: essi non possono, in alcun modo, essere utilizzati, per aggirare l’obbligo del minimale contributivo (i valori per il 2025 sono stati oggetto di descrizione da parte dell’Inps con la circolare n. 26 dello scorso 30 gennaio).
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