Motivazione obbligatoria nei licenziamenti individuali
L'editoriale di Eufranio Massi
L’importanza della motivazione nel licenziamento
Sovente, nei provvedimenti di licenziamento, si registra una forte anomalia: la motivazione del recesso datoriale viene descritta sinteticamente o, addirittura, in alcuni casi viene omessa. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9544/2025 ricorda che alla luce del comma 2 dell’art. 2 della legge n. 604/1966 il licenziamento “deve contenere i motivi specifici per cui viene intimato, motivi che vanno esplicitati contestualmente alla comunicazione dell’atto”. Tutto ciò, secondo i giudici di legittimità, è indispensabile per garantire il diritto alla difesa del lavoratore: una motivazione generica, oscura o mancante, non consente di attivare il contraddittorio. Non si tratta di una violazione formale, ma sostanziale, cosa che determina una illegittimità del procedimento fin dall’inizio.
Il caso specifico e la decisione della Cassazione
Questa breve premessa si è resa indispensabile per comprendere ciò che la Corte, ha affermato, riferendosi al licenziamento di un lavoratore, assunto prima del 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 23/2015, adottato da un datore di lavoro dimensionato oltre le 15 unità.
La Cassazione, ha riformato la decisione del giudice di merito (Corte di Appello di Firenze) che, applicando il comma 6 dell’art. 18 della legge n. 300/1970, aveva riconosciuto soltanto una tutela indennitaria per il licenziamento illegittimo, in quanto per le ragioni addotte dal datore nel corso del giudizio, peraltro non contestate dall’ex dipendente, si trattava di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Da ciò discendeva l’applicazione del comma 6 il quale contempla l’inefficacia del licenziamento per violazione del requisito della motivazione con il solo riconoscimento di una indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale, tra un minimo di 6 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
La posizione della Cassazione sulla tutela applicabile
La Corte di Cassazione non è d’accordo: infatti ritiene illogica la tutela indennitaria prevista dal comma 6 per vizi formali minori e dispone l’applicazione della c.d. “tutela reintegratoria attenuata”, disciplinata al comma 4 che accanto alla ricostituzione del rapporto prevede una indennità di natura risarcitoria fino ad un massimo di 12 mensilità, in quanto equipara tale situazione, in un’ottica di sistema che trae origine dalle decisioni della Corte Costituzionale n. 59/2021, n. 125/2022 e n. 128/2024, ai casi di insussistenza del fatto. Per completezza di informazione ricordo che dalla indennità risarcitoria attenuata stabilita dal giudice, occorre dedurre quanto percepito dal dipendente, nel periodo di estromissione, per altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi, con diligenza, alla ricerca di una nuova occupazione. Il comma 4 prevede anche il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dal giorno del licenziamento illegittimo fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi legali, ma senza sanzioni correlate all’omesso o ritardato versamento: ovviamente, se il lavoratore ha prestato attività durante il periodo di estromissione., la contribuzione dovuta è pari al differenziale tra quella maturata nel periodo di estromissione e quella accreditata a seguito dello svolgimento di altre attività lavorative.
Considerazioni finali sulla decisione
Il ragionamento seguito dalla Cassazione è il seguente: se non si fosse adottata tale decisione ci si troverebbe di fronte al paradosso del riconoscimento di una tutela minore (quella rappresentata dalla sola indennità risarcitoria) al caso più grave determinato dalla mancanza della motivazione, mentre nella ipotesi più tenue, quella del fatto addotto, ma insussistente a seguito degli accertamenti emersi nel dibattito giudiziale, si avrebbe una tutela maggiore rappresentata dalla reintegra, sia pure “attenuata”, in quanto accompagnata da una indennità risarcitoria non superiore alle 12 mensilità , calcolate sull’ultima retribuzione globale di fatto.
Tale decisione porta, a mio avviso, ad alcune considerazioni: sulla spinta delle decisioni adottate in questi anni dalla Consulta a partire dalla sentenza n. 194/2018 sulla indennità risarcitoria prevista nei licenziamenti attivati ex decreto legislativo n. 323/2015, la Cassazione ha, progressivamente, minato le “certezze” che la legge n. 92/2012, con la riforma dell’art. 18 della legge n. 300/1970 e, soprattutto il “Jobs Act” con il decreto legislativo n. 23/2015 avevano pensato di fornire ai datori di lavoro in materia di “costo del licenziamento”. Il giudice, con le sue sentenze, è tornato al centro del dibattito processuale e, probabilmente, tornerà ad essere ancora più centrale se la Corte Costituzionale, come già detto, esplicitamente dalla stessa, in caso di inerzia del Parlamento, dovesse intervenire anche in merito alle tutele dei lavoratori occupati presso datori con meno di 16 dipendenti ove, in un mondo in continua evoluzione, il riferimento all’organico, è, ormai, insufficiente a catalogare una impresa come piccola.
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