Licenziamenti: reintegra e non indennità risarcitoria cosa dimostrare?

L'editoriale di Eufranio Massi

Licenziamenti: reintegra e non indennità risarcitoria cosa dimostrare?

Licenziamenti: reintegra e non indennità risarcitoria se non dimostrata la riorganizzazione aziendale

A dodici anni dall’entrata in vigore del decreto legislativo n. 23/2015, sul quale gli elettori saranno chiamati a decidere con il referendum abrogativo nel prossimo mese di giugno, si può affermare che sia la Corte Costituzionale che quella di Cassazione con una serie di sentenze hanno, di molto, cambiato la struttura del provvedimento nato, nelle intenzioni di chi lo scrisse a suo tempo, con l’obiettivo di rendere certo il costo economico del recesso datoriale, con la reintegra limitata soltanto alle ipotesi indicate dall’art. 2 e ad alcune, minime, previste dal successivo art. 3.

Introduzione al Decreto Legislativo n. 23/2015 e le sue modifiche

Se si lancia uno sguardo “d’insieme” sul provvedimento ove, in origine, sostanzialmente, veniva sottratta al giudice la maggior parte dei poteri di verifica dovendo applicare, per gli assunti a partire dal 7 marzo 2015, in caso di licenziamento illegittimo, una indennità predeterminata, già scritta nella norma e strettamente correlata all’unico criterio della anzianità aziendale, ci si accorge di come gli organismi di vertice giudicanti abbiano, di molto, cambiato, le disposizioni, rimettendo il giudice, nella sua piena funzione, al centro del contenzioso.

La sentenza della Corte di Cassazione e la revisione della riorganizzazione aziendale

Questa breve premessa si è resa necessaria per comprendere i contenuti della recente ordinanza n. 6221/2025 della Corte di Cassazione ove, con rinvio al giudice di merito, è stato riconosciuto il diritto alla reintegra, in luogo della corresponsione di una indennità risarcitoria di natura monetaria, ad una lavoratrice alla quale si applicava, pienamente, il decreto legislativo n. 23/2015, licenziata con una motivazione, peraltro non dimostrata in giudizio, ove si faceva riferimento ad una “riorganizzazione aziendale finalizzata ad ottenere una maggiore efficienza ed economicità nei gestione”.

La Corte di Appello, con una sentenza impugnata dalla ex dipendente, ritenendo generiche le motivazioni addotte dal datore di lavoro, in applicazione dell’art. 3, comma 1, aveva ritenuto illegittimo il recesso ed aveva condannato l’azienda al pagamento di una indennità risarcitoria pari a sei mensilità calcolate sull’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.

Il diritto alla reintegra in caso di licenziamento illegittimo

La lavoratrice, nel ricorso presentato ai giudici di piazza Cavour, lamentava un comportamento ritorsivo (peraltro non riconosciuto dalla stessa Cassazione), ma anche una poco corretta quantificazione della indennità risarcitoria a fronte di un recesso aziendale “intimato per motivi che nulla hanno avuto a che fare con vicende attinenti in modo oggettivo o soggettivo al suo ruolo”.

L’art. 3, Comma 2, e le sue implicazioni

La Corte di Cassazione (ed è questo il cuore dell’ordinanza che occorre tenere a mente) ha affermato come, avendo quale parametro di riferimento il regime sanzionatorio “ratione temporis” , la Corte di Appello, alla luce della sentenza n. 128/2024 della Consulta, possa, oggi, avvalersi della decisione secondo la quale il comma 2 dell’art. 3 del decreto legislativo n. 23/2015 è illegittimo nella parte in cui non prevede la tutela reintegratoria anche nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui risulta non dimostrata l’insussistenza del fatto materiale.

La Corte Costituzionale, ricorda la Cassazione, a differenza di quanto previsto per il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo è la radicale irrilevanza della insussistenza del fatto materiale nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, a far emergere “un difetto di sistematicità”, con la conseguenza, del tutto ingiustificata sotto l’aspetto costituzionale di evidente differenziazione tra due situazioni del tutto omogenee.

Sulla base di tali considerazioni la Cassazione ha rimesso la decisione alla Corte di Appello, chiedendo l’applicazione dell’art. 3, comma 2, del decreto legislativo n. 23/2015 alla luce della lettura fornita e della successiva pronuncia di incostituzionalità quale si evince della sentenza della Consulta n. 128/2024.

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Eufranio Massi
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E' stato per 40 anni dipendente del Ministero del Lavoro. Ha diretto, in qualità di Dirigente, le strutture di Parma, Latina, i Servizi Ispettivi centrali, Modena, Verona, Padova e Piacenza. Collabora, da sempre, con riviste specializzate e siti web sul tema lavoro tra cui Generazione vincente blog.

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1 Commenti

  1. In effetti siamo tornati all’art. 18 della legge Fornero. Ma, allora, perché non tornare a ritenere applicabile anche la decorrenza in corso di rapporto della prescrizione quinquennale dei crediti retributivi? Cuius commoda eius incommoda.

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