Le differenti indennità nei licenziamenti illegittimi delle piccole imprese

L'editoriale di Eufranio Massi

Le differenti indennità nei licenziamenti illegittimi delle piccole imprese

La dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 9 D.Lgs. 23/2015

Ho già avuto modo su questo blog di commentare gli effetti della sentenza n. 118/2025 della Corte Costituzionale con la quale è stato dichiarato incostituzionale l’art. 9, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015 limitatamente alle parole “e non può, in ogni caso, superare il limite delle sei mensilità” che opera in caso di licenziamento illegittimo presso i piccoli datori di lavoro. L’intervento della Consulta, già preannunciato in una precedente decisione del 2023, si è verificato a fronte dell’inerzia di un Parlamento che non prende minimamente in considerazione come il criterio di piccola impresa, basato, soltanto, sul criterio numerico dei dipendenti con contratto di lavoro subordinato (fino a quindici) non sia più al passo dei tempi ove si registrano imprese con un numero di lavoratori ampiamente sotto tale soglia (e magari con un maggior numero di soggetti in somministrazione o con contratti di collaborazione a vario contenuto) che fatturano milioni di euro e che operano in settori tecnologicamente avanzati.

Il campo di applicazione del D.Lgs. 23/2015

Come è noto il decreto legislativo n. 23/2015 trova applicazione unicamente nei confronti di chi è stato assunto a partire dal 7 marzo 2015 e, quindi, la decisione del giudice delle leggi che, portando l’indennizzo da tre a diciotto mensilità, ha rimesso al centro delle decisioni il giudice di merito che può modulare l’indennità sulla base dei criteri stabiliti dall’art. 8 della legge n. 604 (numero dei dipendenti, dimensioni dell’impresa, anzianità di servizio del dipendente, comportamento e condizioni delle parti), trova applicazione unicamente nei loro confronti. La Consulta non aveva titolo per intervenire anche sull’art. 8 della legge n. 604/1966 ove si parla dell’indennità risarcitoria in favore dei dipendenti delle piccole imprese assunti prima del 7 marzo 2015, perché ciò non rientrava nel “petitum” del giudice remittente, ma il rinnovato appello al Parlamento a provvedere, sembra quasi preconizzare, a fronte di un comportamento inerte, una prossima decisione di incostituzionalità.

Indennità risarcitorie e art. 8 legge n. 604/1966

Fatta questa premessa e rimandando a ciò che, in ordine alla sentenza n. 118/2025, ho affermato nell’articolo pubblicato il 25 luglio u.s., sottolineo gli aspetti di non univocità delle indennità risarcitorie in presenza di un licenziamento illegittimo.

Infatti, per coloro che sono stati assunti prima del 7 marzo 2015 e, nel frattempo, la piccola impresa è rimasta tale non superando il limite delle quindici unità dipendenti (o, sessanta se con più unità produttive sotto la soglia, raggiunge tale numero in sommatoria), trova applicazione l’art. 8 della legge n. 604/1966, il quale afferma che in mancanza di una riassunzione a seguito di declaratoria di illegittimità del licenziamento dovuto a giusta causa o giustificato motivo, il giudice stabilisce una indennità di importo compreso tra 2,5 e 6 mensilità calcolate sull’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri previsti dal suddetto articolo 8. Tale indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità se il prestatore di lavoro presenta una anzianità superiore a dieci anni e fino a 14 mensilità se l’anzianità è superiore a venti anni, qualora siano dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici lavoratori dipendenti. Tale ultimo assunto va, ovviamente, riferito, come affermò la Cassazione con la sentenza n. 6531/2001, soltanto “ai datori che occupino complessivamente più di quindici e fino a sessanta dipendenti, distribuiti in unità produttive e ambiti comunali aventi, ciascuno, meno di quindici dipendenti”.

Il superamento della soglia occupazionale

C’è, infine, un altro caso che, indirettamente, può essere richiamato: si tratta dell’art. 1, comma 3, del D.L.vo n. 23/2015 ove si afferma che “nel caso in cui il datore di lavoro (che era piccolo), in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del presente decreto (7 marzo 2015), integri il requisito occupazionale di cui all’articolo 18, ottavo e nono comma, della legge n. 300/1970 e successive modificazioni (ossia, superi al soglia delle quindici unità dipendenti), il licenziamento  dei lavoratori, anche se assunti precedentemente, è disciplinato dal presente decreto (ossia, si applica la tutela risarcitoria prevista dall’art. 3 (da sei a trentasei mensilità dell’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR, alla luce della sentenza della n. 194/2018 della Corte Costituzionale)”.

Effetti sul sistema delle conciliazioni

Il sistema variegato delle indennità previste ha, sicuramente, effetti ben precisi nei tentativi di conciliazione che, sovente, vengono tentati prima del ricorso giudiziale.

Con le modifiche al comma 1 dell’art. 9 (che si applica anche ai datori di lavoro non imprenditori che svolgono, senza fine di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto), intervenute con la sentenza della Corte Costituzionale, è avvenuta l’eliminazione del tetto massimo delle sei mensilità: la tutela indennitaria è compresa all’interno di una fascia che va dalle tre alle diciotto mensilità, in quanto il ristoro può essere delimitato ma non sacrificato nella logica del contenimento dei costi, perché si è, pur sempre, a fronte di un licenziamento illegittimo che, pur nel contesto delle piccole aziende, resta sempre un atto illecito, come ricorda la sentenza n. 150 del 2020.

La nuova formulazione dell’art. 9 e le richieste conciliative

La sentenza della Consulta nel breve-medio termine potrà avere effetto anche sui tentativi di conciliazione riguardanti i licenziamenti nelle piccole aziende che si svolgono, ad esempio, avanti alla commissione provinciale di conciliazione istituita presso ogni Ispettorato del Lavoro, oppure in sede sindacale o avanti ad un organismo di certificazione. Qui il tetto massimo di sei mensilità nelle richieste non sarà assolutamente più rispettato e, sicuramente, si assisterà a richieste molto più cospicue, alla luce della nuova formulazione dell’art. 9, comma 1.

Il declino del tentativo facoltativo di conciliazione ex art. 6

Personalmente ritengo che anche il tentativo facoltativo di conciliazione sul licenziamento previsto dal comma 1 dell’art. 6, ove l’indennità risarcitoria per i piccoli datori di lavoro, dimezzata ex art. 9, comma 1, è di ½ mensilità all’anno e comunque non inferiore ad una, fino ad un massimo di sei, non imponibile ai fini dell’IRPEF e non soggetta a contribuzione previdenziale, finirà per perdere il residuo “gradimento” (non è che ne avesse in abbondanza), essendo più conveniente seguire la via giudiziale, soprattutto se il recesso si presenta con una forte dose di illegittimità.

Autore

Eufranio Massi
Eufranio Massi 397 posts

E' stato per 40 anni dipendente del Ministero del Lavoro. Ha diretto, in qualità di Dirigente, le strutture di Parma, Latina, i Servizi Ispettivi centrali, Modena, Verona, Padova e Piacenza. Collabora, da sempre, con riviste specializzate e siti web sul tema lavoro tra cui Generazione vincente blog.

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1 Commenti

  1. Poichè si parla comunque di indennità risarcitorie, la cosa che da anni mi lascia perplesso è il riferimento alle dimensioni dell’impresa, e, più recentemente, alla capacità economica della stessa. Sembrerebbe logico che, in un’ottica risarcitoria, rapportare la determinazione del “quantum” al danno subito dal lavoratore, facendo riferimento, ad esempio, alla rioccupabilità dello stesso calata nella realtà locale specifica. Altrimenti, più che di un risarcimento, si dovrebbe paralre di una sorta di sanzione graduata sulla capacità economica dell’azienda (il che, nel nostro ordinamento, credo costirebbe un unicum…). Per non parlare del fatto che, non ponendo limiti al valore economico dell’alea del giudizio, ogni licenziamento rischia di diventare oggetto di impugnazione al solo fine di ottenere una somma conciliativa (in anni ho visto troppo abuso della normativa a tutela dei lavoratori per poter continuare a credere aprioristicamente che il lavoratore sia sempre la parte debole nel rapporto di lavoro).

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