Il licenziamento della lavoratrice madre nel periodo protetto [E.Massi]

Il licenziamento della lavoratrice madre nel periodo protetto [E.Massi]

La pubblicazione di una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 2004 del 26 gennaio 2017, offre lo spunto per una riflessione sui contenuti dell’art. 54 del D.L.vo n. 151/2001 che contempla gli unici casi nei quali, in deroga al divieto generale, è consentito al datore di lavoro di procedere al licenziamento della lavoratrice madre nel periodo che va dall’inizio della gestazione fino al compimento di un anno di vita del bambino.

L’inizio della gestazione si presume avvenuto 300 giorni prima della data presunta del parto indicata nel certificato medico di gravidanza

Prima di entrare nel merito della riflessione reputo opportuno ricordare come la posizione della lavoratrice che si trova in queste particolari condizioni sia tutelata anche sotto l’aspetto delle dimissioni che, a pena di nullità ed entro termini perentori, vanno confermate avanti al funzionario dell’Ispettorato territoriale del Lavoro.
La stessa tutela (entro un anno dalla nascita del bambino) viene riservata al padre che ha fruito, in luogo della madre, il congedo per paternità per una di quelle cause particolarmente forti che lo consentono (morte della madre, gravi condizioni di salute della stessa che non consentono l’assistenza al neonato, allontanamento volontario dal nucleo familiare, affidamento giudiziale del bambino).

L’eventuale licenziamento intimato durante il periodo di tutela legale è nullo: la tutela è piena nei confronti di ogni datore di lavoro a prescindere dalle dimensioni occupazionali. La nullità comporta la reintegra nel posto di lavoro con il pagamento delle retribuzioni e della contribuzione per tutto il periodo in cui l’interessata è rimasta lontana dal posto di lavoro, con la possibilità per la stessa di non rientrare in servizio optando per il pagamento di ulteriori quindici mensilità.

Fatta questa breve premessa ricordo che il licenziamento è previsto soltanto in casi eccezionali che l’art. 54 del D.L.vo n. 151/2001 elenca puntualmente:

  1. colpa grave della lavoratrice costituente giusta causa di risoluzione del rapporto;
  2. cessazione dell’attività aziendale;
  3. ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o scadenza del termine nei rapporti di lavoro a tempo determinato;
  4. esito negativo della prova.

Partiamo, quindi, dalla prima ipotesi riprendendo le considerazioni espresse dalla Cassazione nella sentenza n. 2004/2017.

La Suprema Corte, rifacendosi ad un indirizzo consolidato espresso, da ultimo, con la decisione n. 19912/2011, ha ricordato come l’art. 54 richieda che, per il recesso, non sia sufficiente la giusta causa ma che occorra un qualcosa di più rappresentato dalla “colpa grave”, non essendo sufficiente una giusta causa di licenziamento prevista dal CCNL.

La Cassazione, rinviando la questione ai giudici dell’appello con richiesta di “adeguato rigore valutativo” ha affermato che “l’ambito di indagine rimesso al giudice di merito, al fine di stabilire la sussistenza della colpa grave costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro della lavoratrice madre, deve estendersi ad un’ampia ricostruzione fattuale del caso concreto e alla considerazione della vicenda espulsiva nella pluralità dei suoi comportamenti. Tale più esteso, articolato e completo ambito di indagine è conseguenza necessaria del carattere autonomo della fattispecie in esame e della sua peculiarità, in quanto la colpa grave, che giustifica la risoluzione del rapporto è quella della donna che si trova in una fase di oggettivo rilievo della sua esistenza, con possibili ripercussioni su piani diversi ed eventualmente concorrenti (personale e psicologico, familiare, organizzativo)“.

Fin qui la Suprema Corte: da ciò discende che la giusta causa e le conseguenti declaratorie del CCNL non sono sufficienti per procedere al recesso nel “periodo tutelato”  ma che occorre una colpa soggettivamente più qualificata: si ritiene, per completezza, che non possa sfuggire al divieto anche il licenziamento per giustificato motivo soggettivo.

Per ben comprendere quanto affermato dai giudici di Piazza Cavour occorre, sinteticamente, partire  dai giudizi di merito del Tribunale e della Corte di Appello che avevano rigettato il ricorso della lavoratrice che aveva alle spalle una situazione abbastanza complicata: era stata già licenziata ma il provvedimento era stato ritirato con l’assegnazione ad un altro ufficio ove la ricorrente non aveva  mai preso servizio accumulando sessanta giorni continuativi di assenza ingiustificata. Nel merito, i giudici di primo e secondo grado avevano ritenuto che era lo stesso contratto collettivo a fornire le motivazioni del recesso, essendo l’assenza ingiustificata reiterata tra le ipotesi contemplate ed il fatto che la lavoratrice non si era mai presentata al lavoro per prospettare le proprie necessità, conduceva a ritenere integrabile la fattispecie della colpa grave richiesta dal Legislatore.

La Cassazione, accogliendo il ricorso dell’interessata e, affermando di porsi nella logica della sentenza n. 61 dell’8 febbraio 1991 della Corte Costituzionale, ha sancito che:

  1. la colpa grave non può rinvenirsi nella individuazione contrattuale circa la sussistenza di un giustificato motivo soggettivo o nella mera giusta causa idonea a giustificare il recesso;
  2. occorre verificare se esista la colpa specifica prevista dall’art. 54 che è diversa “per l’indicato connotato di gravità, da quella prevista dalla disciplina pattizia per i generici casi d’inadempimento della lavoratrice sanzionati con la risoluzione del rapporto”.

La seconda ipotesi richiamata dal Legislatore riguarda la cessazione dell’attività aziendale.

Secondo gli indirizzi espressi, in passato, sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, la cessazione deve essere effettiva e non legata ad un semplice rischio di chiusura e lo stesso trasferimento di azienda con il mutamento delle mansioni non possono legittimare il licenziamento.

In passato, era stata data anche una lettura estensiva della norma (Cass., 7752/1986, n. 5647/1985) secondo la quale configurava la possibilità del licenziamento anche la cessazione di un ramo di attività o di un reparto autonomo dell’impresa a condizione che il datore comprovasse l’impossibilità del reinserimento in un’altra struttura o reparto dell’azienda. Tale indirizzo è stato, poi, abbandonato e la Corte ha ribadito la necessità di una cessazione totale dell’azienda (Cass., n. 1334/1992).

Nel caso in cui, in giudizio, si dibatta sulla effettiva cessazione dell’attività, alla lavoratrice spetta soltanto provare l’avvenuto licenziamento e lo stato di gravidanza: è sul datore di lavoro che grava l’onere di dimostrare che l’attività è effettivamente cessata (Cass., n. 5221/1996). Il discorso è del tutto analogo nei casi di riduzione collettiva di personale: la lavoratrice non può essere licenziata e, quindi, non può andare in NASPI (che dal 1° gennaio 2017 ha sostituito l’indennità di mobilità) a meno che non ci si trovi di fronte ad una cessazione completa dell’attività aziendale.

La terza esimente concerne la ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice era stata assunta o la scadenza del termine in un contratto a tempo determinato. Probabilmente, il primo non è un concetto autonomo rispetto al contratto a termine, riferendosi, unicamente, alla ipotesi del contratto a tempo determinato.  Di conseguenza, la Cassazione (Cass., n. 12569/2003) ha ritenuto illegittimo il licenziamento intimato in un appalto di pulizie, ove l’impresa subentrante aveva assunto tutti i dipendenti ad eccezione di una lavoratrice assente per maternità che aveva un contratto di assunzione a tempo indeterminato.

La quarta ipotesi riguarda l’esito negativo della prova. Il recesso risulta legittimo soltanto se l’imprenditore non è a conoscenza dello stato di gravidanza. Osserva la Corte Costituzionale con la sentenza n. 172 del 31 maggio 1996, che in caso contrario, per difendere la lavoratrice da prevaricazioni, il datore deve motivare il giudizio negativo concernente l’esito della prova. In questo modo si consente da un lato, all’interessata di fornire l’eventuale prova contraria e, dall’altro, al giudice di valutare i motivi reali del recesso, alfine di escludere con ragionevole certezza che esso sia stato determinato dallo stato di gravidanza.

Un’ultima considerazione riguarda le lavoratrici domestiche in gravidanza: possono essere licenziate (si tenga presente che, in questo caso, il licenziamento è “ad nutum”)?

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17433/2015 ha affermato che il recesso non può essere ritenuto illegittimo in quanto l’art. 62, comma 1, del D.L.vo n. 151/2001 prevede, espressamente, per le collaboratrici familiari l’applicazione degli articoli 6, comma 3, 16, 17, 22, commi 3 e 6, ma non dell’art. 54, comma 3, lettera a) che vieta il recesso del datore di lavoro durante il “periodo protetto”, fatta salva l’ipotesi di colpa grave costituente giusta causa.

Quello che non è detto dalla legge, però, viene affermato nell’art. 24 del CCNL, rinnovato nel corso del 2014, il quale afferma che le lavoratrici in gravidanza non possono essere licenziate fino al termine del periodo di astensione per congedo di maternità, fatta salva l’ipotesi della giusta causa. Indubbiamente  il CCNL vincola i datori di lavoro che aderiscono all’associazione firmataria ma, a mio avviso, il vincolo c’è anche per quei datori di lavoro che, pur senza essere iscritti, applicano il contratto collettivo per le parti che concernono la retribuzione, l’orario di lavoro, le ferie o altri istituti contrattuali: sembrerebbe quantomeno strana la non applicazione, soltanto, della norma che tutela la maternità.

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Eufranio Massi
Eufranio Massi 355 posts

E' stato per 40 anni dipendente del Ministero del Lavoro. Ha diretto, in qualità di Dirigente, le strutture di Parma, Latina, i Servizi Ispettivi centrali, Modena, Verona, Padova e Piacenza. Collabora, da sempre, con riviste specializzate e siti web sul tema lavoro tra cui Generazione vincente blog.

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