Blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo verso nuove proroghe

Nel nuovo D.L. “Sostegni” prosegue il blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo per una serie di aziende che utilizzato gli ammortizzatori sociali COVID-19

Blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo verso nuove proroghe

Il blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo continua, fino al 30 giugno p.v., per tutti i datori di lavoro e prosegue, fino al 31 ottobre 2021 per una serie di aziende che utilizzano gli ammortizzatori sociali COVID-19, che portano alla fruizione dell’assegno ordinario o del trattamento di Cassa in deroga: questo è il “succo” del provvedimento contenuto nel D.L. “Sostegni” approvato dal Consiglio dei Ministri il 19 marzo u.s.. Si tratta di un criterio del tutto nuovo che, a mio avviso, merita alcune spiegazioni.

Il testo appena approvato dispone che, fino al prossimo 30 giugno, per tutti i datori di lavoro restano precluse sia le procedure collettive di riduzione di personale che i licenziamenti individuali, a prescindere dalle dimensioni aziendali: resta, inoltre, “bloccato” il tentativo obbligatorio di conciliazione ex art. 7 della legge n. 604/1966 che si svolge davanti alla commissione provinciale di conciliazione istituita presso ogni Ispettorato territoriale del Lavoro. E che riguarda i lavoratori delle imprese dimensionate oltre le quindici unità, assunti prima del 7 marzo 2015. Dal 1° luglio, invece, il “blocco” rimarrà, come vedremo, per interi settori destinatari degli ammortizzatori sociali COVID-19 che come detto pocanzi, si concretizzano nell’assegno ordinario e nella cassa in deroga.

Ovviamente, sono possibili una serie di eccezioni che, da ultimo, aveva già confermato il comma 311 dell’art. 1, della legge n. 178/2020:

  • Cambio di appalto con la riassunzione del personale da parte del datore di lavoro subentrante nel rispetto di un obbligo di legge (ad esempio, art. 50 del codice degli appalti), di contratto collettivo (ad esempio, l’art. 4 del CCNL multiservizi) o di una clausola contenuta nel contratto di appalto;
  • Licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società, a meno che non si configuri una cessione totale o parziale dell’azienda, nel qual caso scatta la tutela dell’art. 2112 c.c. per ogni lavoratore interessato, con la conseguente illegittimità dei recessi;
  • Accordo collettivo aziendale stipulato con le organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale (in sostanza, con le organizzazioni territoriali di categoria, ma non con le RSA o le RSU che, tuttavia, possono, a mio avviso, aggiungere la propria firma “ad abundantiam”), limitatamente ai lavoratori che aderiscono. Questi ultimi hanno diritto alla NASPI, in presenza dei requisiti oggettivi e soggettivi richiesti dal D.L.vo n. 22/2015, secondo le indicazioni fornite dall’INPS con la circolare n. 111/2020 (richiesta del trattamento di disoccupazione con accordo allegato e dichiarazione di adesione). Il datore di lavoro è tenuto al pagamento contributo di ingresso alla NASPI nella misura ordinaria. Nell’accordo collettivo che, a mio avviso, va siglato entro il giorno di scadenza del “blocco dei licenziamenti” pur potendo le risoluzioni dei rapporti avvenire in data successiva (e, sarebbe opportuno che, il Ministero del Lavoro, uscendo dal suo tradizionale silenzio, fornisse qualche indicazione amministrativa scritta), le parti individuano i profili eccedentari e possono (non è un obbligo) identificare il “quantum” a titolo di incentivo all’esodo che può essere diversificato in ragione del profilo professionale, dell’anzianità e delle singole situazioni, non dimenticando anche ipotesi di pensionamento anticipato anche attraverso le procedure del contratto di espansione che, per il 2021, riguarda le imprese con un organico superiore alle 250 unità. Nell’accordo, le parti possono anche convenire che i singoli accordi di risoluzione siano sottoscritti “in sede protetta” ex art. 410 o 411 cpc, cosa che evita al lavoratore la procedura telematica di conferma della risoluzione consensuale o delle dimissioni attraverso la procedura telematica individuata dall’art. 26 del D.L.vo n. 151/2015 e dal conseguente D.M. applicativo. L’accordo collettivo può avvenire anche a seguito di procedura collettiva di personale (criterio delle risoluzioni consensuali ex art. 5 della legge n. 223/1991) che, è possibile in quanto prevista come eccezione alla regola generale: in tale quadro, sempre come eccezione, possono essere riprese anche le procedure individuali ex lege n. 604/1966;
  • Fallimento, nel caso in cui non vi sia una prosecuzione, anche parziale dell’attività, magari autorizzata dall’autorità giudiziaria.

Le cose cambiano dal 1° luglio 2021.

I datori di lavoro che fanno ricorso ai fini dell’emergenza COVID-19,, senza il pagamento di alcun contributo addizionale, all’assegno ordinario o ai trattamenti di cassa integrazione salariale in deroga (FIS, CIG in deroga, Fondi bilaterali) continuano ad essere “bloccati” per i licenziamenti determinati da giustificato motivo oggettivo (fatte salve le eccezioni sopra menzionate) fino al 31 ottobre 2021.

Ma, quali sono le aziende che potranno procedere ai licenziamenti per g.m.o. a partire dal 1° luglio e che, se necessario, potranno aprire le procedure collettive di riduzione di personale previste dagli articoli 4, 5 e 24 della legge n. 223/1991?

Sono quelle imprese che rientrano nelle tutele della Cassa integrazione guadagni ordinaria e che sono indicate all’art. 10 del D.L.vo n. 148/2015 e che pagano il relativo contributo previsto dall’art. 13, le cui aliquote di versamento mensile  sono correlate sia ai limiti dimensionali che alla eventuale appartenenza al settore edile o lapideo:

  • Imprese manifatturiere, di trasporti, estrattive, di installazione di impianti, produzione e distribuzione dell’energia, acqua e gas;
  • Cooperative di produzione e lavoro che svolgano attività lavorative similari a quelle degli operai delle imprese industriali, fatta eccezione delle cooperative ex DPR n. 602/1970, per le quali l’art. 1 del DPR non prevede la contribuzione per la CIG;
  • Imprese dell’industri boschiva, forestale e del tabacco;
  • Cooperative agricole, zootecniche e dei loro consorzi che esercitano attività di trasformazione, manipolazione e commercializzazione di prodotti agricoli propri per i soli dipendenti con contratto a tempo indeterminato;
  • Imprese addette al noleggio e alla distribuzione dei film di sviluppo e stampa di pellicole cinematografiche;
  • Imprese industriali per la frangitura delle olive per conto terzi;
  • Imprese produttrici di calcestruzzo preconfezionato;
  • Imprese addette agli impianti telefonici ed elettrici;
  • Imprese addette all’armamento ferroviario;
  • Imprese industriali degli Enti pubblici, salvo il caso in cui il capitale sia interamente di proprietà pubblica;
  • Imprese industriali ed artigiane dell’edilizia e affini;
  • Imprese industriali esercenti l’attività di escavazione e/o escavazione di materiale lapideo;
  • Imprese artigiane che svolgono attività di escavazione e di lavorazione di materiali lapidei, con esclusione di quelle che svolgono tale attività di lavorazione in laboratori con strutture e organizzazione distinte dalle attività di escavazione.

La ragione di tale differenziazione, non potendosi protrarre all’infinito lo “stop” ai licenziamenti, può, forse, essere spiegata nei termini sotto evidenziati

Per le aziende che fruiscono della CIGO (che, in generale, sono più strutturate delle altre e che, magari, hanno all’interno rappresentanze sindacali) la data del 1° luglio non rappresenta, necessariamente, quella del “via” ai recessi per giustificato motivo oggettivo, atteso che, a fronte di una situazione di crisi ancora presente, potrebbero essere attivati, venendo meno le integrazioni salariali COVID-19, ammortizzatori sociali, ordinari o straordinari, secondo le previsioni del D.L.vo n. 148/2015 che, però, è bene rimarcarlo, non sono a “costo zero” come gli ammortizzatori COVID-19, essendo previsto un contributo addizionale nella misura individuata dall’art. 5. La questione dei licenziamenti si presenta, indubbiamente, anche in queste imprese che, magari, debbono procedere a ristrutturazioni ma qui, ripeto, le soluzioni, anche alternative ai recessi, possono essere diverse e, in un certi senso, si tratta di strade già percorse, in passato, da molti imprenditori.

Completamente diverso è, a mio avviso, il discorso per i datori di lavoro che non possono attivare l’ammortizzatore CIGO. Qui, nella maggior parte dei casi, si è in presenza di  aziende con pochissimi dipendenti, che usufruiscono dell’assegno ordinario o della CIG in deroga, che appartengono a settori, come i pubblici esercizi, il commercio, il turismo, le agenzie di viaggio, lo spettacolo, ed i servizi, in generale, particolarmente colpite dalla pandemia e che sono state (e sono) colpite dalle chiusure o dai restringimenti dell’attività attraverso vari provvedimenti amministrativi, mentre altri settori soprattutto industriali, e della grande e piccola distribuzione hanno, pur tra numerose difficoltà, continuato a lavorare.

Per questi datori di lavoro (mi riferisco, in particolar modo, quelli che occupano meno di sei lavoratori) se non fruiscono di integrazioni COVID-19 non hanno altro e, di conseguenza, la decisione del Governo di bloccare i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo fino al 31 ottobre 2021 (periodo che può essere “coperto” dall’ammortizzatore, previsto, soltanto per assegno ordinario e CIG in deroga, per 28 settimane a partire dal 1° aprile), appare “in linea” con la tutela del posto di lavoro la quale, dallo scoppio della pandemia, è stato un obiettivo primario (il primo “stop” è datato 17 marzo 2020). Per quella data, dovrebbe essere stata definita la riforma delle integrazioni salariali che dovrebbe avere un contenuto universalistico: ovviamente, se la crisi da coronavirus sarà passata (o si sarà, di molto, attenuata) con la ripresa progressiva delle attività, anche i recessi dovrebbero essere oltremodo risotti.

Detto questo, però, non è male, per completezza di informazioni, elencare i provvedimenti di licenziamento che restano fuori dal “blocco” in quanto non ascrivibili al giustificato motivo oggettivo (e, ovviamente, non si deve trattare di un recesso per tale motivazione “mascherato”). Essi sono:

  • I licenziamenti per giusta causa che, comunque, obbligano il datore alle procedure di garanzia previste dall’art. 7 della legge n. 300/1970: (contestazione scritta e diritto a difesa del lavoratore) secondo le indicazioni espresse dalla Consulta con la sentenza n. 204 del 30 novembre 1982;
  • I licenziamenti per giustificato motivo soggettivo, ivi compresi quelli di natura disciplinare, anch’essi soggetti alle tutele garantiste indicate dall’art. 7 della legge n. 300/1970;
  • I licenziamenti per raggiungimento del limite massimo di età per la fruizione della pensione di vecchiaia, in quanto per la prosecuzione fino ai settanta anni occorre un accordo tra le parti perché  il diritto alla prosecuzione non è un diritto potestativo del lavoratore: tale principio è espresso, con chiarezza, nella sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 17589 del 4 settembre 2015;
  • I licenziamenti determinati dal superamento del periodo di comporto ex art. 2110 c.c., in quanto la procedura è “assimilabile” al giustificato motivo oggettivo ma non è giustificato motivo oggettivo;
  • I licenziamenti durante o al termine del periodo di prova sottoscritto dalle parti prima della costituzione del rapporto, con l’indicazione puntuale sia della durata che delle mansioni specifiche da svolgere;
  • I licenziamenti dei dirigenti sulla base della c.d. “giustificatezza”, frutto della elaborazione della contrattazione collettiva: si tratta di un criterio di valutazione più forte rispetto al giustificato motivo oggettivo che si applica agli altri lavoratori subordinati. Da tale parere si è discostato, da ultimo, il Tribunale di Roma con la sentenza del 26 febbraio 2021, laddove ha affermato che la “ratio” del divieto di licenziamento è quella di evitare che le conseguenze della pandemia si riverberino su tutti i rapporti di lavoro e, quindi, con una lettura “costituzionalmente orientata”, ha esteso la disposizione che fa riferimento alla legge n. 604/1966 anche ad un dirigente licenziato per motivi economici;
  • I licenziamenti dei lavoratori domestici che sono “ad nutum”;
  • I licenziamenti dei lavoratori dello spettacolo a tempo indeterminato (cosa rara), laddove nel contratto di scrittura artistica sia prevista la c.d. “clausola di protesta”, cosa che consente la risoluzione del rapporto allorquando il lavoratore sia ritenuto non idoneo alla parte;
  • La risoluzione del rapporto di apprendistato al termine del periodo formativo a seguito di recesso ex art. 2118 c.c.: qui, non appare ravvisabile il giustificato motivo oggettivo. Ovviamente, occorre tener presente quanto affermato dall’art. 2, comma 4, del D.L.vo n. 148/2015 in base al quale il periodo formativo dell’apprendistato professionalizzante è prorogato per un periodo uguale a quello in cui il giovane ha fruito della integrazione salariale.

Resta, poi, la questione correlata al licenziamento per inidoneità psico-fisica che, secondo un indirizzo giurisprudenziale prevalente, alla luce delle specifiche disposizioni contenute nell’art. 42 del D.L.vo n. 81/2008 o all’interno della legge n. 68/1999 (articoli 4 e 10) è riconducibile al giustificato motivo oggettivo e quindi, come tale, è compresa nel “blocco”: su tale linea interpretativa si è espresso, di recente, anche l’Ispettorato Nazionale del Lavoro.

Autore

Eufranio Massi
Eufranio Massi 324 posts

E' stato per 40 anni dipendente del Ministero del Lavoro. Ha diretto, in qualità di Dirigente, le strutture di Parma, Latina, i Servizi Ispettivi centrali, Modena, Verona, Padova e Piacenza. Collabora, da sempre, con riviste specializzate e siti web sul tema lavoro tra cui Generazione vincente blog.

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