Le tutele in caso di violazione dei diritti di informazione del Decreto Trasparenza

Eufranio Massi, nel suo Editoriale settimanale, approfondisce alcuni aspetti del Decreto Trasparenza

Le tutele in caso di violazione dei diritti di informazione del Decreto Trasparenza

Il Capo IV del D.L.vo n. 105/2022 individua le misure di tutela a disposizione dei lavoratori dipendenti e dei committenti nel caso in cui i diritti alle informazioni relative ai loro rapporti di lavoro risultino non tutelati.

Si tratta, essenzialmente, di un “crescendo” di tutele che sono individuate agli articoli 12, 13 e 14. Per la verità, ci sarebbe anche il 15 che, però, per il solo settore pubblico rimanda alle disposizioni dei rispettivi ordinamenti di settore.

Ma andiamo con ordine.

Con l’articolo 12 si richiama l’attenzione delle parti sugli strumenti conciliativi previsti dal nostro ordinamento in caso di contenzioso derivante dalla applicazione degli articoli legati alle informazioni ed ai dati. Non c’è una preferenza per uno strumento o l’altro ma la norma si limita ad elencare le varie disposizioni, per le quali, ovviamente, gli eventuali ricorrenti dovranno seguire le indicazioni specifiche previste per ogni istituto.

L’elencazione comprende articoli 410 e 411 cpc (conciliazione avanti alla commissione istituita presso ogni Ispettorato territoriale del Lavoro, conciliazione in sede sindacale, conciliazione avanti alle commissioni di certificazione), 412 e 412-quater (collegi di conciliazione ed arbitrato) e art. 31, comma 12, della legge n. 183/2010 (camere arbitrali).

Come ben si può arguire dalla citazione delle norme appena richiamate, il Legislatore delegato ha citato anche istituti che da quando sono entrati nel nostro ordinamento (mi riferisco, principalmente, ai collegi ex art. 412 – quater cpc ed alle camere arbitrali dell’art. 31, comma 12 della legge n. 183/2010) sono stati scarsamente utilizzati.

Con il successivo art. 13 viene trattata la questione relativa alla protezione da un trattamento ritorsivo del datore di lavoro e delle conseguenze sfavorevoli.

Infatti, l’adozione di un atto di natura ritorsiva nei confronti di un lavoratore subordinato o committente che abbia presentato una richiesta al proprio datore o abbia promosso un procedimento, anche non giudiziario (ad esempio, una richiesta effettuata attraverso un organismo sindacale o un tentativo di conciliazione ai sensi dell’art. 12), comporta la invalidità dell’atto datoriale e fatto salvo che ciò non costituisca reato, viene punito con la sanzione prevista dall’art. 41, comma 2, del D.L.vo n. 198/2006, richiamato dall’art. 13.

I lavoratori possono rivolgersi, anche per il tramite di una associazione sindacale, agli organi di vigilanza dell’Ispettorato che applicano la sanzione, una volta accertata la veridicità di quanto denunciato.

Fin qui la disposizione che merita di essere chiarita.

L’accertamento degli ispettori del lavoro che, ovviamente, può avvenire anche autonomamente nel corso di un normale accesso ispettivo, postula un accertamento in ordine alla veridicità del fatto e, soltanto dopo, trova applicazione la sanzione prevista dall’art. 41, comma 2, del D.L.vo n. 198/2006: su questo punto, la circolare n. 4/2022 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro è chiara.

Rimane, piuttosto, da esaminare un’altra questione: il Legislatore parla di “invalidità dell’atto datoriale”. Se ciò è conseguenza dell’azione ispettiva, la dichiarazione di invalidità dell’atto sarà onere dell’organo di vigilanza ma, al momento, mancano le indicazioni amministrative ed il percorso da seguire per giungere alla dichiarazione di invalidità il cui compito dovrebbe essere dell’ispettore accertante più che del Dirigente dell’Ufficio. Su questo punto si attendono i chiarimenti di prassi dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro anche per quel che riguarda i possibili ricorsi avverso il verbale ispettivo.

La soluzione della questione appare molto più semplice nel caso in cui sia stato instaurato un ricorso giudiziale: qui, nel caso in cui venga accertata la natura ritorsiva del provvedimento è il giudice stesso, con la propria sentenza, a dichiarare l’invalidità dell’atto.

Con l’art. 14 si entra nelle misure specifiche relative al licenziamento del lavoratore dipendente ed al recesso del committente: il datore di lavoro ed il committente non possono recedere dal contratto in essere con lavoratori che abbiano esercitato i diritti previsti sia dal D.L.vo n. 104/2022 che dal D.Lvo n. 152/1997. Il lavoratore può chiedere i motivi della estromissione dal lavoro ed il datore (o il committente) è tenuto a fornirli, per iscritto, entro i 7 giorni successivi alla richiesta.

Prima di proseguire nel merito, appare opportuno fare una piccola considerazione: per tutti i lavoratori dipendenti l’art. 2 della legge n. 604/1966 prevede che la comunicazione del licenziamento deve, in maniera contestuale, specificare le motivazioni (l’assenza delle stesse è vizio formale). Di conseguenza, la norma appena descritta sembra attagliarsi, essenzialmente, alle collaborazioni coordinate e continuative ed a quelle occasionali ove i lavoratori non hanno un rapporto di lavoro subordinato.

Il licenziamento ritorsivo è ben presente nel nostro ordinamento ( art. 18 della legge n. 300/1970, art. 2 del D.L.vo n. 23/2015) e per la giurisprudenza esso è il sintomo di una reazione ingiusta ed arbitraria ad un comportamento legittimo del dipendente: la norma che si sta commentando, rispetto al quadro generale, presenta, però, una novità che è rappresentata dall’inversione dell’onere della prova che è, quindi, a carico del datore (o del committente) che deve provare la sua insussistenza. Assistiamo, quindi, ad una inversione dell’onere probatorio, in quanto la Cassazione ha sempre sostenuto che è il lavoratore che deve fornire la prova, anche attraverso presunzioni (Cass. n. 11705/2029) ed, inoltre, il motivo ritorsivo deve essere determinante ed esclusivo tale da far considerare insussistente, nel riscontro del giudizio, il motivo lecito che è stato, formalmente, adottato dal datore di lavoro (Cass. n. 15218/2022).

Questa diversa disciplina sul motivo ritorsivo apre uno scenario relativo all’ambito applicativo. Qui la parola, in caso di contenzioso, spetterà, innanzitutto, ai giudici di merito che, a mio avviso, dovrebbero limitare la procedura dell’art. 14 alla sola ipotesi in cui il licenziamento o il recesso del committente siano stati determinati, unicamente, dalla violazione dei diritti scaturenti dai Decreti Legislativi n. 104/2022 e n. 152/1997 e non da altre ipotesi di ritorsione, ben più frequenti, nei posti di lavoro.

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Eufranio Massi
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E' stato per 40 anni dipendente del Ministero del Lavoro. Ha diretto, in qualità di Dirigente, le strutture di Parma, Latina, i Servizi Ispettivi centrali, Modena, Verona, Padova e Piacenza. Collabora, da sempre, con riviste specializzate e siti web sul tema lavoro tra cui Generazione vincente blog.

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