Le risoluzioni del rapporto nell’apprendistato professionalizzante

Eufranio Massi, nel suo Editoriale settimanale, affronta il tema delle risoluzioni del rapporto nell'apprendistato professionalizzante

Le risoluzioni del rapporto nell’apprendistato professionalizzante

Un tema che, frequentemente, si trovano ad affrontare gli operatori è quello della risoluzione del rapporto di apprendistato professionalizzante prima della scadenza del periodo formativo o alla scadenza dello stesso.

Vale la pena di ricordare che il contratto di apprendistato professionalizzante può essere sottoscritto:

  1. Con giovani di età compresa tra i 18 ed i 29 anni e 364 giorni all’atto dell’attivazione del rapporto, anticipabile a 17 per i soggetti in possesso di una qualifica professionale conseguita ai sensi del D.L.vo n. 226/2005;
  2. Senza limiti di età, con i soggetti beneficiari di un trattamento di NASPI ai fini di una qualificazione o riqualificazione professionale e, dal 1° gennaio 2022, con i soli lavoratori beneficiari del trattamento di CIGS per transizione occupazionale (art. 22 – ter del D.L.vo n. 148/2015). E’ questo un contratto di apprendistato con alcune specifiche particolarità che lo differenziano da quello appena declinato sub a).

Prima di entrare nel merito di questa riflessione ricordo che l’apprendistato è un contratto a tempo indeterminato finalizzato alla formazione ed alla occupazione dei giovani (art. 41 del D.L.vo n. 81/2015) e che per i datori di lavoro che svolgono l’attività in cicli stagionali, i contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale possono prevedere (come nel caso del settore turistico) specifiche modalità di svolgimenti del contratto, anche a tempo determinato (art. 44, comma 5).

La risoluzione anticipata del rapporto durante il periodo formativo può avvenire attraverso alcuni istituti come le dimissioni, la risoluzione consensuale, l’esercizio della facoltà di risolvere il rapporto ex art. 2118 c.c., con preavviso decorrente dal termine del periodo di apprendistato, ed il licenziamento.

 Dimissioni e risoluzioni consensuali

La via che deve seguire il lavoratore per presentare le proprie dimissioni (o dichiarazione di risoluzione consensuale) è soltanto una: quella telematica di cui parlano sia l’art. 26 del D.L.vo n. 151/2015 che del conseguente decreto applicativo del Ministro del Lavoro. Dimissioni che, se presentate, possono essere revocate entro i 7 giorni successivi.

Ma, il discorso non finisce qui, nel senso che altre dimissioni, che potremmo definire “rafforzate” dalla procedura, vanno tenute in debita considerazione.

E’ il caso, ad esempio, della donna, titolare di un rapporto di apprendistato che presenta le proprie dimissioni durante il periodo protetto (dall’inizio della gestazione fino al giorno del compimento di un anno di età del proprio bambino (o bambina). Discorsi del tutto analoghi per quel che riguarda i tempi, possono riferirsi ai casi di adozione o di affidamento. Qui, le dimissioni presentate al datore di lavoro (con il sistema telematico che è l’unico possibile) vanno convalidate entro un mese avanti ad un funzionario dell’Ispettorato territoriale del Lavoro.  La stessa procedura può riguardare il lavoratore padre nel caso in cui risulti l’unico affidatario (perché la madre è morta, perché è gravemente malata, per affidamento esclusivo, ecc.). Ricorrendo tale ipotesi spettano alla lavoratrice ed al padre lavoratore ce si è trovato nelle situazioni appena descritte, le indennità previste dalla legge (ad esempio, il preavviso e la NASPI) per il caso di licenziamento.

Ma, la convalida delle dimissioni non termina qui.

Le dimissioni ma anche la risoluzione consensuale presentate dalla lavoratrice o dal lavoratore nei primi 3 anni di vita del bambino o nei primi 3 anni di accoglimento del minore adottato o in affidamento, debbono essere convalidate dall’Ispettorato territoriale del Lavoro e a detta convalida è, sospensivamente, condizionata l’efficacia della risoluzione del rapporto di lavoro.

C’è, poi, il caso della lavoratrice che presenta le proprie dimissioni nel periodo compreso tra l’affissione delle pubblicazioni di matrimonio all’albo comunale e fino ad un anno dalla celebrazione dello stesso (art. 35 del D.L.vo n. 198/2006). Anche tali dimissioni, seppur ritualmente presentate, necessitano, per la loro efficacia, della convalida di un funzionario dell’Ispettorato territoriale del Lavoro.

Qui, negli anni appena trascorsi, la magistratura di merito, soprattutto in Veneto, aveva sostenuto che, per il principio di parità uomo – donna, la procedura della convalida delle dimissioni per causa di matrimonio dovesse essere applicata anche al lavoratore. Di tale avviso non è stata la Corte di Cassazione che con la sentenza n. 28926 del 12 novembre 2018 ha affermato che la norma, inserita nel codice di pari opportunità tra uomo e donna, deve essere letta, per la sua comprensione, quale approdo della tutela costituzionale assicurata ai diritti della donna lavoratrice come nel caso delle garanzie ex art. 37. Tale previsione normativa non appare discriminatoria nei confronti dell’altro sesso, ma è una disposizione di tutela della maternità in rapporto alla sua essenziale “funzione familiare”.

Risoluzione del rapporto al termine del periodo formativo

Il comma 4 dell’art. 42 afferma che “al termine del periodo di apprendistato le parti possono recedere dal contratto, ai sensi dell’art. 2118 c.c., con preavviso decorrente dal medesimo termine. Durante periodo di preavviso continua a trovare applicazione la disciplina del contratto di apprendistato. Se nessuna delle parti recede il rapporto prosegue come ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato”.

Questa disposizione non trova applicazione all’apprendistato professionalizzante degli “over 29”, titolari di un trattamento di NASPI ed ai lavoratori in CIGS da “transizione occupazionale” ex art. 22- ter del D.L.vo n. 148/2015, ove la tipologia contrattuale dell’apprendistato attivabile in questi casi si può considerare una misura di politica attiva del lavoro alla quale si applicano, per quanto possibile, le norme generali su tale tipologia contrattuale.

La norma legale, quindi, pur riferendosi ad entrambe le parti, viene vista con particolare attenzione dai datori di lavoro che possono, legittimamente, risolvere il rapporto al termine del periodo formativo, inviando all’interessato una nota specifica e comunicando il periodo di preavviso contrattuale durante il quale sia la retribuzione che la contribuzione sono quelle dell’apprendistato, pur se si è andati oltre la fine del periodo.

Ovviamente, in presenza di “cause impedienti” (lavoratrice “nel periodo protetto” o nell’anno dal matrimonio) la risoluzione ex art. 2118 c.c. “slitta” fino alla fine delle stesse, come ebbe a ricordare anche il Ministero del Lavoro con l’interpello n. 16 del 12 giugno 2012.

Nel caso di specie non si tratta di un licenziamento (tanto è vero che, durante la pandemia, le risoluzioni del contratto di apprendistato al termine del periodo formativo rimasero fuori dal “blocco generalizzato”) ma di una risoluzione, prevista dalla legge, ove il datore, pagando la relativa indennità, può esonerare l’interessato a prestare il periodo di preavviso che, se lavorato, si interrompe in caso di malattia od infortunio.

Licenziamento

Afferma il comma 3 dell’art. 42 che durante l’apprendistato trovano applicazione le sanzioni previste dalla normativa vigente per il licenziamento illegittimo: essa non può che essere quella del D.L.vo n. 23/2015, entrata in vigore per tutte le assunzioni effettuate a partire dal 7 marzo del 2015.

Ciò significa che trovano piena applicazione gli articoli 2 e 3 del predetto Decreto.

Nei casi di nullità espressamente prevista dalla legge (ad esempio, licenziamento della donna nel periodo protetto), di discriminazione, di recesso intimato in forma orale, la conseguenza giudiziale, indipendentemente dal motivo formalmente addotto, è una soltanto: la reintegrazione nel posto di lavoro (art. 2, comma 1). Ciò vale per tutti i datori di lavoro (imprenditori e non imprenditori), a prescindere dalle loro dimensioni. Con la stessa sentenza il giudice condanna il datore al risarcimento del danno subito dal lavoratore, stabilendo una indennità, commisurata all’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR, corrispondente al periodo intercorrente tra la data del recesso e quella della effettiva reintegra, dedotto, il c.d. “aliunde perceptum”, oltre al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali. La misura del risarcimento non può essere inferiore alle 5 mensilità, come sopra calcolate. Il lavoratore, fermo restando il diritto al risarcimento, può chiedere in luogo della reintegra, una indennità ari a 15 mensilità.

Con l’art. 3, invece, qualora non ricorrano gli estremi per qualificare il licenziamento come giusta causa, giustificato motivo oggettivo o giustificato motivo oggettivo è prevista una indennità risarcitoria, pari a due mensilità dell’ultima retribuzione per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a 6 e non superiore a 36 mensilità. E’ bene ricordare che su questo punto è intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza n. 194/2018 laddove ha affermato che il criterio dell’anzianità, seppur importante, a fronte di situazioni non omogenee, può essere integrato da giudice di merito, con altri criteri desumibili da altre disposizioni come, ad esempio, l’art. 8 della legge n. 604/1966 e far lievitare, così, l’indennità, sempre nel limite massimo previsto.

Nelle aziende che non superano le 15 unità l’indennità risarcitoria non può superare le 6 mensilità.

Autore

Eufranio Massi
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E' stato per 40 anni dipendente del Ministero del Lavoro. Ha diretto, in qualità di Dirigente, le strutture di Parma, Latina, i Servizi Ispettivi centrali, Modena, Verona, Padova e Piacenza. Collabora, da sempre, con riviste specializzate e siti web sul tema lavoro tra cui Generazione vincente blog.

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4 Commenti

  1. Titti
    Giugno 12, 15:06

    Quanto tempo passa da apprendistato professionalizzante ad assunzione definitivaa tempo indeterminato ove questa fosse decisa dal datore di lavoro?

    • L’apprendistato professionalizzante, come afferma l’art. 41 del decreto legislativo n. 81/2015, è, da subito, un contratto a tempo indeterminato finalizzato alla formazione d all’occupazione dei giovani. Esso può essere risolto dalle parti (datore di lavoro o lavoratore) al termine del periodo formativo, attivando la previsione dell’art. 2118 c.c. .

  2. Titti
    Giugno 12, 15:06

    Quanto tempo passa da apprendistato professionalizzante ad assunzione definitivaa tempo indeterminato ove questa fosse decisa dal datore di lavoro?

    • L’apprendistato professionalizzante, come afferma l’art. 41 del decreto legislativo n. 81/2015, è, da subito, un contratto a tempo indeterminato finalizzato alla formazione d all’occupazione dei giovani. Esso può essere risolto dalle parti (datore di lavoro o lavoratore) al termine del periodo formativo, attivando la previsione dell’art. 2118 c.c. .

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