Reintegro lavoratore: può essere trasferito in altra unità?

Reintegro lavoratore in azienda in virtù di una sentenza del giudice del lavoro. In virtù di ciò, possiamo trasferirlo in un’altra unità produttiva?

Reintegro lavoratore: può essere trasferito in altra unità?

Stiamo procedendo al reintegro lavoratore in azienda, in virtù di una sentenza del giudice del lavoro. Secondo Lei possiamo trasferire il lavoratore in un’altra unità produttiva?

Il trasferimento del lavoratore reintegrato potrebbe essere considerato ritorsivo e come tale oggetto di un ulteriore ricorso al giudice del lavoro.

La legittimità del trasferimento deve essere supportata da una oggettiva motivazione quale, ad esempio, la soppressione del posto di lavoro all’interno dell’unità produttiva ove operava il lavoratore illegittimamente licenziato.

 

In sintesi è bene ricordare in cosa consiste il reintegro lavoratore:

La reintegrazione costituisce la più efficace forma di tutela prevista dalla legge a favore del lavoratore illegittimamente licenziato e consiste nell’obbligo, in capo al datore di lavoro, di riammettere il dipendente nel medesimo posto che occupava prima del licenziamento.

Questa particolare forma di garanzia è stata introdotta nel nostro ordinamento dall’art. 18 della legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) e, fino al 2012, era applicabile a tutti i casi di licenziamento illegittimo che riguardavano lavoratori assunti presso datori di lavoro, imprenditori o non imprenditori, che superavano specifiche soglie dimensionali (unità produttiva con più di 15 lavoratori, o più di 5 in caso di imprenditore agricolo, o più di 60 dipendenti in totale).

Tra il 2012 e il 2015, tuttavia, il legislatore ha sensibilmente ridotto le ipotesi in cui il giudice può ordinare al datore di lavoro di reintegrare il dipendente illegittimamente licenziato.

In particolare, la riforma del mercato del lavoro del 2012 è intervenuta direttamente sul testo dell’art. 18, modificando significativamente il regime di tutela previsto da tale norma: mentre prima di tale legge, il principio di stabilità del rapporto di lavoro era tutelato in ogni caso, a oggi la norma prevede invece quattro differenti regimi di tutela (Tutela reintegratoria “piena”, Tutela reintegratoria “attenuata”, Tutela meramente obbligatoria, Tutela obbligatoria “ridotta”), che si applicano gradatamente a seconda della gravità dei vizi che inficiano il licenziamento. Solo due di questi quattro regimi contemplano la reintegrazione del lavoratore tra le sanzioni applicabili nei confronti del datore di lavoro.

Il progressivo depotenziamento delle tutele offerte ai lavoratori in caso di licenziamento ingiusto è quindi proseguito con l’entrata in vigore del decreto legislativo 23/2015 (contenente la disciplina del c.d. “contratto di lavoro a tutele crescenti”), attuativo della legge delega 183/2014 (c.d. Jobs Act), che ha introdotto un nuovo regime sanzionatorio per le ipotesi di licenziamento illegittimo, che interessa tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto (7 marzo 2015); detto regime individua nel pagamento di un’indennità risarcitoria la sanzione principale applicabile in caso di licenziamento illegittimo e limita ulteriormente le ipotesi di reintegrazione nel posto di lavoro.

Leggi anche:

Insussistenza del giustificato motivo di licenziamento: reintegra obbligatoria per la consulta [Eufranio Massi]

Licenziamento illegittimo – Stop alla reintegra in caso di crisi aziendale [Cassazione]

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Roberto Camera
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Esperto di Diritto del Lavoro e relatore in convegni sulla gestione del personale. Ha creato, ed attualmente cura, il sito internet http://www.dottrinalavoro.it in materia di lavoro. (*Le considerazioni sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza)

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