La nuova gestione delle collaborazioni: che fare? [E.Massi]

La nuova gestione delle collaborazioni: che fare? [E.Massi]

Le collaborazioni, tipica forma di lavoro autonomo, sono, da tempo, sotto la sfera di osservazione  degli addetti ai lavori, della giurisprudenza, della dottrina e degli organi di vigilanza: le stesse, recenti modifiche normative, introdotte con il D.L. n. 101/2019, convertito, con modificazioni, nella legge n. 128 e le decisioni contenute nella sentenza della Corte di Cassazione n. 1663 del 23 gennaio 2020, ne hanno accentuato l’attenzione, atteso che tutto il quadro di riferimento sembra sempre più come un percorso accidentato ove appare facile “andare fuori strada” e scivolare verso l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato.

Fatta questa breve premessa, vado a focalizzare le nuove questioni, partendo dalle novità introdotte con il D.L. n. 101.

Il Legislatore è intervenuto sull’art. 2, comma 1, del D.L.vo n. 81/2015 con alcuni significativi cambiamenti:

  • Eliminando l’avverbio “esclusivamente” riferito all’attività del collaboratore ed inserendo le parole “prevalentemente personali”, con ciò allargando la possibilità di equiparazione al lavoro subordinato anche a chi per la propria attività collaborativa si avvale, in misura non prevalente, della collaborazione di altre persone;
  • Eliminando l’inciso “anche con riferimento ai tempi e luoghi di lavoro”, con ciò eliminando la possibilità di una interpretazione restrittiva che, pure c’è stata in passato, secondo la quale la modalità etero organizzativa che porta all’applicazione delle norme sul lavoro subordinato era riferibile unicamente al tempo ed al luogo ove veniva svolta la prestazione;
  • Inserendo (e si tratta di una disposizione con la quale si cerca di affrontare la problematica dei “riders”) l’assunto secondo il quale la disposizione trova applicazione “anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”.

Da quanto appena detto si possono trarre alcune conclusioni: qualunque sia la modalità etero organizzativa accertata dal giudice o, anche, in via amministrativa, dagli organi di vigilanza (fermi restando i possibili mezzi di gravame previsti dall’ordinamento) della prestazione prevalentemente personale porta alla applicazione della disciplina sul lavoro subordinato.

A questo punto il problema da risolvere riguarda la etero organizzazione ed i limiti entro la quale la stessa può configurarsi e, in questo caso, ritengo che la sentenza della Cassazione sopra richiamata offra lo spunto per alcune importanti riflessioni.

Esse riguardano le modalità del coordinamento: se queste sono frutto di una imposizione unilaterale del committente (da verificare, nel concreto, ed a prescindere da ciò che, formalmente, viene riportato nell’atto scritto) si rientra nell’ambito di applicazione delle disposizioni relative al rapporto di lavoro subordinato.

Il coordinamento di per sé non è elemento distintivo della etero organizzazione (infatti, come vedremo, è ben richiamato dalle collaborazioni ex art. 409, n. 3, cpc), in quanto rappresenta il collegamento funzionale con l’organizzazione dell’impresa, ma lo diventa allorquando esso è, materialmente, imposto dal committente.

Ma, in sintesi, cosa ha detto la Suprema Corte?

Dopo aver esaminato le teorie seguite negli anni sia dalla giurisprudenza che dalla dottrina la Cassazione afferma che l’art. 2, comma 1, del D.L.vo n. 81/2015 non configura un “tertium genus” tra autonomia e subordinazione ma che, secondo lo spirito che ha permeato la riforma del c.d “Jobs Act” si è in presenza di un rafforzamento delle tutele offerte ai lavoratori con misure del tutto equivalenti a quelle dei lavoratori subordinati.

La Corte  ritiene errato il convincimento dei giudici di Appello di Torino (la questione, come è noto, è nata dal contenzioso sui “riders”) espresso con la sentenza n. 26/2019, che non hanno ritenuto praticabile una estensione generalizzata delle regole sulla subordinazione, ma hanno scelto una strada selettiva ritenendo la tutela limitata soltanto ad alcuni istituti.

La posizione “rimediale” sostenuta dai giudici di legittimità porta ad una conseguenza che appare di primaria importanza: ogni qual volta si ravvisi una etero organizzazione, non c’è una riqualificazione automatica del rapporto, ma il datore dovrà riconoscere un trattamento economico e normativo uguale a quello dei lavoratori subordinati impegnati con mansioni uguali od affini.

Si tratta di una “norma di disciplina che non crea una nuova fattispecie”. Il Legislatore “in una prospettiva anti elusiva ha previsto “l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato a forme di collaborazione, continuativa e personale, realizzate con l’ingerenza funzionale dell’organizzazione predisposta unilateralmente da chi commissiona la prestazione”.

Ovviamente, non risulta, assolutamente, precluso al giudice di merito un approfondimento delle questioni presentate al proprio esame, con l’accertamento probatorio di altri elementi qualificanti   cosa che potrebbe, legittimamente, portare al riconoscimento pieno della subordinazione con tutte le conseguenze del caso: si tratta, infatti, di un potere del giudice costituzionalmente necessario (Corte Costituzionale, sentenza n. 115/1994) finalizzato ad inibire l’uso abusivo di “schermi contrattuali” che contrastano con le finalità perseguite dal Legislatore.

Applicazione delle regole sul lavoro subordinato, significa, nella interpretazione offerta dalla sentenza n. 1663/2020, applicazione anche delle disposizioni di tutela sui licenziamenti?

La Corte non si è pronunciata in quanto la questione non è stata portata alla sua attenzione con il ricorso incidentale dei lavoratori interessati. Tuttavia, dalle parole della motivazione traspare un atteggiamento prudente, laddove si afferma che l’applicazione integrale delle regole sul lavoro subordinato appare “ontologicamente incompatibile”, in alcuni casi, con le disposizioni che regolano le collaborazioni (la questione è trattata al capoverso n. 41 della sentenza).

Ma, a questo punto, sorgono per gli operatori alcune domande alle quali non è possibile fornire una risposta sicura:

  • Quale sarà la casistica sulle incompatibilità “ontologiche”?
  • Come si comporteranno, andando nel concreto, i giudici di merito?

La Corte si sofferma, poi, anche sulle collaborazioni ex art. 409 n. 3 cpc incentrando l’attenzione sul coordinamento dell’attività del collaboratore, elemento presente anche nelle collaborazioni ex art. 2, comma 1, del D.L.vo n. 81/2015, osservando che nelle prime le modalità sono stabilite di comune accordo tra le parti ed eseguite in autonomia dal prestatore, mentre nelle seconde esse sono, sovente, frutto della imposizione del committente (come nel caso di specie relativo ai riders), integrando, quindi, gli estremi della etero organizzazione.

La distinzione operata dalla Cassazione tra le collaborazioni ex art. 2, comma 1,  del D.L.vo n. 81/2015 e quelle coordinate individuate dalla norma di diritto processuale appena indicata, appare semplice “sulla carta” ma, nel concreto, in caso di contenzioso potrebbe essere alquanto difficile la distinzione tra etero organizzazione e coordinamento: di qui la necessità di andare oltre quanto scritto nel contratto (fase genetica)  e di verificare come è avvenuta l’esecuzione del rapporto, soprattutto in ordine alla con sensualità.

Alla luce delle considerazioni, succintamente, espresse ritengo necessarie alcune riflessioni.

La fase “esplosiva” delle collaborazioni (più o meno regolari) è superata. A ciò hanno contribuito diversi fattori: la progressiva assimilazione degli importi contributivi a carico del committente con quelli che il datore di lavoro paga per i propri dipendenti, i controlli degli organi di vigilanza, i recuperi contributivi dell’INPS che, sovente, si sono riverberati anche sulle assunzioni agevolate previste dalle disposizioni sugli sgravi triennali o biennali per le assunzioni, le controversie economiche scaturenti da collaborazioni dai “dubbi contenuti”, le decisioni della magistratura di merito che hanno riconosciuto la subordinazione in molte ipotesi (si pensi, ad esempio, all’art. 69 del D.L.vo n. 276/2003, ove viene verificata per i co.co.pro. la mancanza o la estrema vacuità del progetto).

Quanto appena detto porta, a mio avviso, ad una conclusione: le collaborazioni sia nella forma prevista dall’art. 2, comma 1, del D.L.vo n. 81/2015 che, per le eccezioni sancite dal successivo comma 2, che, infine, per quelle ex art. 409 cpc, debbono essere “veramente autentiche” e non ha senso correre rischi, atteso che la pronuncia esplicita della Cassazione e gli ultimi interventi normativi del Legislatore sembrano restringere “le vie di fuga”. Al contempo il personale ispettivo delle articolazioni periferiche dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro e gli altri organi adibiti all’ attività di vigilanza hanno più certezze per ricondurre le “false collaborazioni” nell’alveo del rapporto di lavoro subordinato.

Autore

Eufranio Massi
Eufranio Massi 322 posts

E' stato per 40 anni dipendente del Ministero del Lavoro. Ha diretto, in qualità di Dirigente, le strutture di Parma, Latina, i Servizi Ispettivi centrali, Modena, Verona, Padova e Piacenza. Collabora, da sempre, con riviste specializzate e siti web sul tema lavoro tra cui Generazione vincente blog.

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