La prescrizione dei crediti di lavoro nella diffida accertativa degli ispettori [E.Massi]

L’INL ha fornito alcuni chiarimenti sull’applicazione della prescrizione nella diffida accertativa per crediti patrimoniali nei confronti dei datori di lavoro

La prescrizione dei crediti di lavoro nella diffida accertativa degli ispettori [E.Massi]

Con la nota n. 595 del 23 gennaio 2020, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro fornisce ai propri ispettori territoriali alcuni chiarimenti finalizzati all’applicazione dell’istituto della prescrizione nella diffida accertativa per crediti patrimoniali prevista dall’art. 12 del D.L. vo n. 124/2004.

Prima di entrare nel merito di quanto affermato dall’INL credo che sia necessario ricapitolare, soprattutto per chi legge ed è estraneo “al mondo degli ispettori e dei loro Capi”, richiamare alcune caratteristiche essenziali dell’istituto e “lo stato dell’arte” concernente la prescrizione di crediti dei lavoratori dopo “le novità normative” contenute nel D.L. vo n. 23/2015.

La diffida accertativa consiste, nella sostanza, in una facoltà riconosciuta al personale ispettivo di diffidare il datore di lavoro a corrispondere, entro un termine prefissato, erogazioni economiche dovute a seguito dello svolgimento del rapporto di lavoro e della regolare esecuzione delle prestazioni concordate. Si tratta di uno strumento di straordinaria importanza che coniuga le esigenze del lavoratore con l’attività ispettiva posta in essere e che, in caso di inottemperanza, può sfociare in un titolo esecutivo finalizzato all’ottenimento immediato di quanto dovuto in ragione del lavoro effettuato.

Ovviamente, la disposizione si riferisce, in primo luogo, ai lavoratori subordinati ma non esclude, affatto, i collaboratori per il quali, alla luce della sentenza della Cassazione n. 1663 del 24 gennaio 2020, qualora i principi contenuti nell’art. 2, comma 1, del D.L.vo n. 81/2015, pur modificati dal D.L. n. 101/2019 non vengano rispettati, trovano applicazione “in toto” le disposizioni che regolano il lavoro subordinato (e, quindi, tutti gli istituti economici e normativi previsti per le mansioni svolte dal CCNL applicato nell’impresa).

Le caratteristiche dei crediti da lavoro oggetto di diffida risiedono, essenzialmente, nella liquidità, nella determinatezza, nella certezza e nella esigibilità.

Come dicevo, si è in presenza di una discrezionalità dell’ispettore che deve, innanzitutto, decidere se emanare o meno il provvedimento, il cui contenuto è determinato sulla scorta della valutazione tecnica degli elementi contrattuali: esso, qualora si decida per l’emanazione va redatto e consegnato, attraverso la c.d. “relata di notifica”, entro la data di conclusione dell’accertamento ispettivo.

Qualora il datore od il committente decidano di non adempiere possono chiedere entro trenta giorni dalla notifica (termine perentorio), un tentativo di conciliazione in sede monocratica ex art. 11 del D.L.vo n. 124/2004: nel caso in cui le parti raggiungano un accordo, la diffida accertativa perde efficacia e le rinunzie e transazioni effettuate conseguenti sono dichiarate esecutive con decreto del giudice competente, su istanza della parte interessata (comma. 3-bis).

Trascorsi i trenta giorni senza alcuna richiesta di conciliazione o, in caso di mancato accordo, la diffida, come ricorda il Legislatore “acquista valore di accertamento tecnico, con efficacia di titolo esecutivo”: tutto questo è, però, subordinato alla emanazione di un ulteriore provvedimento la cui competenza ricade sul “Capo” dell’Ispettorato territoriale del Lavoro. Esso non è (o, almeno “non dovrebbe essere”) un semplice atto formale, ma un intervento specifico del Dirigente che si caratterizza con tutte le formule provvedimentali (intestazione, premessa, dispositivo, data, sottoscrizione e “relata di notifica”).

Questi brevi cenni, senz’altro non esaurienti, sulla diffida accertativa si sono resi necessari per comprendere i chiarimenti forniti dall’INL in merito alla prescrizione di crediti dei lavoratori: la nota si è soffermata sui diversi orientamenti giurisprudenziali che, talora, hanno affermato come la stessa decorra in costanza di rapporto di lavoro o al termine dello stesso.

A questo punto credo che, per completezza della riflessione, sia necessario un breve “excursus” su quanto, negli anni passati hanno detto in materia di prescrizione dei crediti di lavoro sia la Corte Costituzionale che la Cassazione.

Il trascorrere del tempo può portare alla perdita dei diritti di cui un lavoratore è portatore per effetto di una mancata rivendicazione. La prescrizione dei crediti retributivi (art. 2946, 2948, 2955 e 2956, c.c.) può, quindi, determinare la perdita di un diritto acquisito, atteso che regola generale è che tutti i diritti di natura economica derivanti dal rapporto di lavoro, se non onorati alle scadenze, debbono esser richiesti ed esercitati entro un certo periodo.

La maggior parte dei crediti, come quelli di natura retributiva corrisposti con una periodicità annuale od inferiore, compresi gli eventuali interessi, soggiacciono alla prescrizione estintiva quinquennale (art. 2948, n. 4 e 5, c.c.): tra essi sono, senz’altro, da ricomprendere, le retribuzioni, lo straordinario (Cass., 20 gennaio 2010, n. 947), il pagamento delle festività lavorate nazionali e di qualsiasi altro credito di lavoro (Cass., 10 novembre 2004, n. 21377) e secondo l’orientamento della Suprema Corte  le indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro, come il TFR (Cass., 13 novembre 2001, n. 14091) e l’indennità sostitutiva del preavviso (Cass., 22 giugno 2004, n. 15798).

In materia di decorrenza dei termini per l’esercizio dei diritti si sono occupate, in passato più volte,  sia la Consulta che la Suprema Corte, partendo da una decisione del primo organo, la n. 63 del 10 giugno 1966, con la quale si sostenne che i termini decorrevano dalla cessazione del rapporto di lavoro, in quanto il lavoratore, in costanza di rapporto,  si trovava in una condizione di sudditanza psicologica che si concretizzava “nel timore del recesso, cioè del licenziamento che spinge o può spingere lo stesso sulla via della rinuncia ad una parte dei propri diritti”.

Tale regola del differimento fu, poi, soggetta a correzioni per effetto della entrata in vigore nel nostro ordinamento sia della legge n. 604/1966 che dell’art. 18 della legge n. 300/1970, fino a giungere alla sentenza n. 174 del 12 dicembre 1972 ove, per la prima volta, fu decisa la questione, risolta in senso positivo, se a fronte di una tutela legislativa “garantista”, non fosse venuto meno il fondamento giuridico che aveva portato, con la decisione n. 63/1966, a posticipare il decorso dei termine alla fine del contratto di lavoro. La conclusione a cui si giunse fu che il differimento dei termini poteva applicarsi ogni qual volta “che il rapporto di lavoro subordinato fosse caratterizzato da una particolare forza di resistenza la quale deriva da una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca la garanzia di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione”.

Tale orientamento fu sposato dalle Sezioni Unite della Cassazione (Cass., S.U., 12 aprile 1976, n. 1268) e confermato da sentenze successive. Esse stabilirono che la decorrenza della prescrizione ordinaria quinquennale “non è unica per qualsiasi rapporto di lavoro ma dipende dal grado di stabilità del rapporto stesso, ritenendosi stabile ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, sia regolato da una disciplina la quale sul piano sostanziale subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo”.

Di conseguenza e limitando la riflessione alla prescrizione quinquennale e tralasciando quella decennale per crediti aventi natura risarcitoria (ad esempio, integrità psico – fisica del lavoratore), o quella annuale (ad esempio, paga settimanale), si può, nella sostanza, affermare che per parte dei lavoratori (assunti fino al 6 marzo 2015) la prescrizione dei crediti di lavoro si verifichi, nel quinquennio dalla loro maturazione, in costanza di rapporto di lavoro, qualora lo stesso sia tutelato dall’art. 18, sia pure riformato dalla legge n. 92/2012, mentre per i lavoratori rientranti nell’ambito della c.d. “tutela obbligatoria”, ove il recesso illegittimo (fatti salvi i casi di nullità o di discriminazione) viene “ristorato” da una indennità di natura economica, il termine decorre dalla cessazione del rapporto.

Le premesse che hanno accompagnato questa breve riflessione sono state necessarie per comprendere come il quadro di riferimento, relativo ai lavoratori ai quali si applica il D.L.vo n. 23/2015, sia profondamente cambiato, pur se talune avvisaglie erano già contenute nella riforma dell’art. 18 avvenuta con la legge n. 92/2012 (si pensi al licenziamento illegittimo per giustificato motivo oggettivo, per il quale, al posto della reintegra, è stata prevista l’indennità risarcitoria compresa tra dodici e ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto).

La tutela reale prevista dall’art. 18 (fatte salve le ipotesi residuali previste dall’art. 2 ed il licenziamento disciplinare per fatto materiale insussistente) non c’è più, essendo stata sostituita in caso di licenziamento illegittimo per giustificato motivo o giusta causa da una indennità monetaria pari a tre mensilità dell’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR per ogni anno di anzianità aziendale, partendo da una base di sei, fino ad un massimo di trentasei (per i datori di lavoro dimensionati fino a quindici dipendenti e per le associazioni di tendenza gli importi sono ridotti della metà con un tetto fissato a sei mensilità). Sulle somme previste nell’originario art. 3 è intervenuto, con congrui aumenti, il D.L. n. 87/2018 ma, soprattutto,  è stato importante l’intervento della Corte Costituzionale con la sentenza n. 194/2018  la quale ha affermato che in caso di licenziamento illegittimo il mero criterio dell’anzianità aziendale, seppur importante, non basta, potendo il giudice di merito integrare, con motivazioni, lo stesso sulla base dei criteri contenuti nell’art. 8 della legge n. 604/1966 (numero dei dipendenti, contesto socio economico, comportamento tenuto dalle parti, ecc.).

Come si vede, la situazione relativa alla prescrizione è notevolmente ingarbugliata e bene ha fatto l’INL ad invitare i propri ispettori a non entrare nel merito della c.d. “sudditanza psicologica” connessa alla stabilità del rapporto di lavoro, ritenendo che la valutazione non possa che essere rimessa all’autorità giudiziaria. Di conseguenza, aderendo ad un parere espresso, su richiesta, dall’Ufficio Legislativo del Ministero del Lavoro e riferendosi ai crediti la cui prescrizione è quinquennale, l’Ispettorato Nazionale ricorda che oggetto della diffida accertativa possono essere unicamente crediti certi, liquidi ed esigibili che, considerato il decorso quinquennale del tempo dal primo giorno utile a far valere il diritto, non si siano ancora prescritti. Ovviamente, si deve tener conto di eventuali atti interruttivi esperiti dal lavoratore ex art. 1219 c.c., debitamente documentati con una semplice richiesta scritta di adempimento tale da far risultare la volontà inequivocabile del titolare del diritto nei confronti del debitore (Cass. n. 16465/2017).

In presenza di atti interruttivi, magari anche susseguenti alla richiesta di intervento presentata in Ufficio, gli ispettori potranno adottare una diffida accertativa per crediti patrimoniali anche vecchi, purché non siano passati cinque anni dall’ultimo atto interruttivo della prescrizione.

Autore

Eufranio Massi
Eufranio Massi 321 posts

E' stato per 40 anni dipendente del Ministero del Lavoro. Ha diretto, in qualità di Dirigente, le strutture di Parma, Latina, i Servizi Ispettivi centrali, Modena, Verona, Padova e Piacenza. Collabora, da sempre, con riviste specializzate e siti web sul tema lavoro tra cui Generazione vincente blog.

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