Permessi per allattamento e buoni pasto: cosa ne pensa la Cassazione

La Corte di Cassazione ha affermato che per la fruizione del buono pasto nei giorni in cui la lavoratrice è in permesso per allattamento occorre che la prestazione lavorativa abbia una durata superiore alle 6 ore

Permessi per allattamento e buoni pasto: cosa ne pensa la Cassazione

Con la sentenza n. 31137 del 28 novembre 2019 la Corte di Cassazione è intervenuta su un punto che, sovente, crea alcune criticità interpretative: quello della fruizione dei buoni pasto in favore delle dipendenti che fruiscono dei permessi per allattamento giornalieri, laddove la computabilità dello stesso venga considerata nel limite complessivo delle 6 ore giornaliere, limite temporale al quale è correlata la fruizione dei predetti “buoni”.

Prima di entrare nel merito della decisione della Cassazione credo sia opportuno ricapitolare, sia pure brevemente, le caratteristiche dell’istituto che trova il proprio fondamento nell’art. 39 del D.L.vo n. 151/2001 e nella circolare INPS n. 109/2000.

Durante il primo anno di vita del bambino la lavoratrice madre ha diritto a periodi di riposo giornalieri retribuiti (c.d. “periodi di allattamento”), cosa che consente alla stessa di uscire dal perimetro aziendale.

Per poter fruire di tale possibilità occorre presentare una domanda al proprio datore di lavoro con l’impegno a comunicare le eventuali variazioni: la mancata concessione, ferme restando altre possibili sanzioni correlate, viene punita dal Legislatore con un importo compreso tra 516 e 2.582 euro, comminabile attraverso gli organi di vigilanza dell’Ispettorato territoriale del Lavoro.

Sul punto il Ministero del Lavoro, con l’interpello n. 23/2015, ha chiarito un aspetto particolare: se la lavoratrice, dopo aver presentato l’istanza per la fruizione non utilizza i permessi, il datore di lavoro non commette alcuna violazione, se tale rinuncia è avvenuta spontaneamente e senza alcuna costrizione.

Ma, quale è la durata dei permessi?

Se l’orario giornaliero risulta pari o superiore a 6 ore giornaliere, la durata dei permessi è di 2 ore, fruibili anche con due riposi di un’ora ciascuno: se l’imprenditore ha istituito in azienda un asilo nido o altra struttura idonea nelle immediate vicinanze, i periodi di riposo sono dimezzati.

Se l’orario di lavoro risulta inferiore a 6 ore, il permesso per allattamento è pari ad un’ora (riducibile alla metà se si usufruisce di un asilo nido aziendale): il diritto è riconosciuto anche in favore di una lavoratrice a tempo parziale che presta la propria attività per un orario giornaliero minimo (ad esempio, un’ora).

I permessi vengono raddoppiati (art. 41 del D.L.vo n. 151/2001) in caso di parto gemellare, a prescindere dal numero dei figli.

Nel corso degli anni l’INPS, sul quale grava l’onere di una indennità da corrispondere all’interessata pari alla retribuzione percepita nel periodo rapportata al divisore orario previsto dal CCNL, ha avuto modo di precisare alcune questioni operative particolarmente importanti:

  • i permessi per allattamento possono sommarsi a quelli della c.d. “banca delle ore” anche se esauriscono l’intero orario giornaliero, con la conseguenza dell’assenza, in quella giornata, di prestazione lavorativa (INPS, circolare n. 95 bis/2006);
  • l’orario al quale far riferimento per la sussistenza del diritto è quello contrattuale, per cui in caso di sciopero (INPS, circolare n. 48/1989) i riposi non spettano se l’astensione comprende il periodo già individuato per l’allattamento, mentre l’indennità viene riconosciuta parzialmente se l’astensione dal lavoro si svolge con un orario parzialmente coincidente.

Per completezza di informazione va sottolineato come l’art. 40 del D.L.vo n. 151/2001 riconosca i c.d. “permessi per allattamento” anche al padre lavoratore in presenza di situazioni specifiche:

  • nel caso in cui il bimbo sia affidato al solo padre;
  • in alternativa alla madre lavoratrice che non se ne avvalga;
  • nel caso in cui la madre lavoratrice non sia lavoratrice dipendente. Su questo punto, in passato, si è, fortemente, dibattuto se il permesso giornaliero spettasse al padre in presenza di una moglie “casalinga”. Dopo diversi orientamenti, il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 4618/2014 affermò che la dizione “madre lavoratrice che non sia lavoratrice dipendente”, comprende tutte le ipotesi di inesistenza di un rapporto di lavoro dipendente e, quindi, anche quella di una donna che non svolga alcuna attività o comunque svolga una attività non retribuita da terzi, come la casalinga. Successivamente, con la decisione n. 4993/2017 lo stesso Organo di Giustizia Amministrativa pose alcuni paletti affermando che la fruizione di permessi giornalieri per il padre è possibile laddove la madre casalinga non possa attendere alle cure del bambino “per specifiche, oggettive, concrete, attuali e ben documentate ragioni”, in quanto se la madre è casalinga, ci si trova di fronte ad “un genitore strutturalmente presente in casa, con ciò soddisfacendo in radice quei bisogni cui l’istituto dei riposi, quale misura ausiliativa a favore del bambino (e non dei genitori) è preordinato”;
  • in caso di morte o grave infermità della madre.

Come accennavo pocanzi, le ore vengono retribuite dall’INPS: il datore di lavoro anticipa il trattamento e richiede, successivamente, il rimborso attraverso l’UniEmens. I ratei di tredicesima ed, eventualmente, se corrisposta, di quattordicesima mensilità, vanno compresi nella indennità erogata dall’Istituto: di ciò occorrerà tenerne conto all’atto del pagamento delle mensilità aggiuntive.

Il diritto ai permessi per allattamento viene riconosciuto anche alla lavoratrice in aspettativa sindacale non retribuita. In tal caso per il calcolo della indennità occorre far riferimento alla retribuzione che avrebbe maturato l’interessata se fosse rimasta al lavoro, avendo quale parametro di riferimento il CCNL del settore di appartenenza e le mansioni svolte prima del distacco.

Tale breve premessa si è resa necessaria per comprendere il quadro di riferimento rispetto al quale opera la sentenza della Corte di Cassazione n. 31137/2019.

Il principio affermato, che riguarda il caso sollevato da una lavoratrice del settore pubblico, è il seguente: la dipendente che non effettua la pausa pranzo e che non raggiunge le 6 ore giornaliere di attività per via della fruizione dei permessi per allattamento, non matura il c.d. “buono pasto”, in quanto le ore fruite per tale motivazione possono essere equiparate alle ore lavorative soltanto ai fini retributivi, mentre non hanno rilievo per il godimento del buono pasto che è una misura di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro “da un nesso meramente occasionale”.

La decisione che tratta, come dicevo, una questione specifica relativa al settore pubblico, riguardava una dipendente della Agenzia delle Dogane che aveva chiesto il pagamento dei buoni pasto per i giorni nei quali, fruendo dell’allattamento, non aveva prestato attività finalizzata al raggiungimento della soglia minima delle 6 ore..

La Corte, respingendo l’istanza dell’interessata, ha affermato che:

  • il buono pasto ha una finalità specifica che è quella di conciliare le esigenze di lavoro con quelle personali, laddove non sia previsto un servizio di mensa;
  • la consegna del buono pasto non è obbligatoria ma dipende dalla effettiva sussistenza di un impegno stabilito dalla contrattazione collettiva, al raggiungimento di un numero minimo di ore: da ciò discende che lo stesso non è configurabile come un corrispettivo obbligatorio della prestazione lavorativa;
  • il buono pasto si colloca nel solco della previsione contenuta nell’art. 8, comma 1, del D.L.vo n. 66/2003 che fissa il diritto ad una pausa al superamento delle 6 ore giornaliere, pausa che è finalizzata al recupero delle energie psico-fisiche ed all’eventuale consumo del pasto;
  • le ore di congedo previste dal D.L.vo n, 151/2001 sono equiparate nel Testo Unico sul Pubblico Impiego soltanto ad alcuni fini (effetti e durata della retribuzione), mentre fuori da tali ambiti non rilevano, Nel caso di specie la ricorrente (“rectius” le ricorrenti, in quanto il ricorso è stato portato avanti da più lavoratrici) hanno prestato la propria effettiva attività giornaliera per 5 ore e 12 minuti: quindi al di sotto del limite orario delle 6 ore, previsto anche dal CCNL applicato e, di conseguenza, non hanno maturato il diritto alla pausa ex art. 8, comma 1, del D.L.vo n. 66/2003;
  • le conclusioni di diritto della Corte trovano conferma anche in alcuni atti amministrativi come l’interpello n. 2 del 16 aprile 2019 del Ministero del Lavoro, nella nota n. 40257 del 10 ottobre 2012 della Funzione Pubblica ove viene precisato che “il diritto al buono pasto sorge per il dipendente nell’ipotesi di attività lavorativa dopo la pausa stessa” e nelle istruzioni fornite dall’Agenzia delle Entrate in data 21 gennaio 2013, laddove si afferma che ai fini della concessione del buono pasto sono considerati “presupposti imprescindibili l’effettuazione della pausa e la prosecuzione dell’attività lavorativa”.

Autore

Eufranio Massi
Eufranio Massi 321 posts

E' stato per 40 anni dipendente del Ministero del Lavoro. Ha diretto, in qualità di Dirigente, le strutture di Parma, Latina, i Servizi Ispettivi centrali, Modena, Verona, Padova e Piacenza. Collabora, da sempre, con riviste specializzate e siti web sul tema lavoro tra cui Generazione vincente blog.

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