La tutela dei minori contro gli abusi sessuali: una “falla” nella normativa [E.Massi]

L’obbligo del datore di lavoro di richiedere il cosiddetto “certificato anti pedofilia” anche nell’ipotesi in cui il proprio dipendente o collaboratore svolga, in esecuzione del contratto di lavoro, attività di volontariato regolari ed organizzate con frequentazione continua di minori

La tutela dei minori contro gli abusi sessuali: una “falla” nella normativa [E.Massi]

Un recente fatto di cronaca nel quale si è rischiata la strage, con il sequestro di 51 bambini e l’incendio volontario del mezzo di trasporto, riporta, a mio avviso, alla ribalta, al di là degli aspetti specifici connessi al fatto delittuoso, l’efficacia operativa delle disposizioni contenute nel D.L.vo n. 39/2014, finalizzate a combattere le violenze sui minori.

Cerco di spiegare meglio l’assunto appena citato: stando alle notizie giornalistiche, il soggetto che ha compiuto il reato, assunto nel lontano 2002, aveva avuto il ritiro temporaneo della patente, per ubriachezza e, soprattutto, nel 2017 aveva riportato una condanna definitiva per violenza sessuale nei confronti di una minore.

Ed è proprio, in relazione a tale ultima condanna che mi chiedo: era possibile per il datore di lavoro chiedere il c.d. “certificato anti pedofilia” e, di conseguenza, inibire il contatto con i minori?

La breve analisi che segue, rispetto alla quale alcuni chiarimenti amministrativi ed operativi sono stati forniti nel 2014 dal Ministero della Giustizia e da quello del Lavoro e, poi, nulla più, cercherà di mettere in evidenza gli obiettivi che ci si era posti all’epoca e la efficacia delle norme in relazione al fatto contestato.

Uscito quasi di nascosto in  Gazzetta Ufficiale (nel senso che gli addetti ai lavori non ne hanno parlato fin quasi al momento della entrata in vigore) il D.L.vo n. 39/2014 ha dato corpo ad una a Direttiva Comunitaria finalizzata a combattere gli abusi sessuali sui minori e la pornografia minorile.

Il Legislatore, come detto, ha inteso combattere gli abusi sessuali sui minori (che, è bene ricordarlo, sono persone con una età inferiore ai diciotto anni) ed è intervenuto, con  l’art. 2, attraverso l’introduzione dell’art. 25 – bis, nel corpus del DPR n. 313/2002. Tale ultimo provvedimento disciplina le regole che governano il casellario penale giudiziale ed il rilascio della certificazione.

La norma dispone che i datori di lavoro i quali intendano impiegare una persona per lo svolgimento di attività professionali o attività volontarie organizzate che comportino contatti diretti e regolari con minori, debbono acquisire, il certificato penale del casellario giudiziale, alfine di verificare l’esistenza di condanne ovvero l’irrogazione di sanzioni interdittive all’esercizio di attività che comportino contatti diretti e regolari con minori, per taluno dei reati di seguito riportati:

  • 600 – bis c.p.: prostituzione minorile;
  • 600 ter c.c. : pornografia minorile;
  • 600 – quater c.p. : detenzione di materiale pornografico;
  • 600 – quinquies c.p. : iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile;
  • 609 –undieces c.p. : adescamento di minorenni.

Il datore di lavoro inottemperante, conclude la norma, viene punito con una sanzione amministrativa compresa tra 10.000 e 15.000 euro.

Con meritevole velocità, il Ministero della Giustizia, attraverso la Direzione Generale della Giustizia Penale del Dipartimento degli Affari di Giustizia il giorno 3 aprile ha fornito alcuni chiarimenti alle Procure della Repubblica circa le modalità da rispettare per il rilascio, in tempi veloci, del certificato del casellario giudiziale, nel rispetto dei principi di tutela dei dati personali, relativamente ai reati ed alle misure interdittive specificatamente richieste dal D.L.vo n. 39/2014.

Di qui i moduli di richiesta e quelli finalizzati ad acquisire il consenso del lavoratore interessato, nonchè la possibilità di una richiesta multipla con  il sistema telematico “Cerpa”: tutto questo per i potenziali datori di lavoro privati interessati, atteso che per quelli pubblici il certificato viene rilasciato d’ufficio, con le modalità previste dall’art. 39 del DPR n. 313/2002.

Il Dicastero della Giustizia sottolinea, ed il Ministero del Lavoro conferma, come, in attesa del rilascio del certificato, l’assunzione possa, legittimamente, avvenire sulla base dell’autocertificazione del lavoratore che dichiari l’inesistenza di condizioni ostative  all’assunzione: ovviamente, qualora il documento rilasciato attesti il contrario, ricorrono, a mio avviso, gli estremi per la risoluzione anticipata del rapporto.

Fatta questa breve premessa, ritengo opportuno soffermarmi sui contenuti “lavoristici” del provvedimento.

La norma si rivolge ai datori di lavoro, ivi comprese le Agenzie di somministrazione qualora, afferma il Dicastero del Lavoro, “dal relativo contratto di fornitura risulti evidente l’impiego del lavoratore nelle attività in questione”: l’ampia accezione del riferimento non sembra portare all’esclusione di alcun soggetto che rivesta, a vario titolo, tale qualifica (che comprende, come vedremo, anche quella di committente) pur se il Ministero del Lavoro, con la circolare n. 9 dell’ 11 aprile 2014, esclude i datori di lavoro domestici sulla base della particolarità del lavoro familiare (il Legislatore vuol tutelare i minori fuori dall’ambito familiare ed il genitore può direttamente adottare le cautele familiari le cautele necessarie): tale interpretazione porta ad evidenziare alcune perplessità, soprattutto se correlata ai fini della Direttiva comunitaria (la tutela dei minori nei confronti delle persone che sono continuamente a contatto con  loro, cosa che è difficile escludere per domestiche e baby – sitter in rapporto regolare e diuturno con  i bambini, soprattutto quando i genitori sono lontani o al lavoro).

La disposizione impone l’obbligo della richiesta del certificato ai datori di lavoro che intendano assumere lavoratori i quali, per lo svolgimento delle loro attività professionali o anche volontarie organizzate, vengano a contatto con minori regolarmente e direttamente: da ciò ne consegue che, a mio avviso, vanno chiariti da subito alcuni concetti tra cui spiccano, innanzitutto, lo svolgimento di attività professionali ed i contatti diretti e regolari.

Attività professionale: essa è da intendere in senso ampio e prescinde dalla natura del rapporto di lavoro posto in essere dal datore di lavoro: contratto a tempo indeterminato, contratto a termine, contratto intermittente, contratto di apprendistato (quelli per i maggiorenni sono il professionalizzante e quello di alta formazione), ma anche collaborazioni coordinate e continuative,  lavoro autonomo con partita IVA, o prestazioni di lavoro occasionale, non meramente episodiche. Ciò che conta è che essa comporti una attività con contatti diretti e regolari con minori. Quest’ultima può realizzarsi anche nell’ipotesi in cui il datore di lavoro (sempre lui e non chi non  riveste tale qualifica) intenda utilizzare una persona anche in attività di natura volontaria organizzate: ciò significa, a mio avviso, che il datore di lavoro (cui, peraltro, si riferisce direttamente anche la rubrica dell’art. 25 – bis relativamente all’onere imposto) è tenuto a chiedere la certificazione anche nell’ipotesi in cui il proprio dipendente o collaboratore svolga, in esecuzione del contratto di lavoro, attività di volontariato regolari ed organizzate con frequentazione continua di minori.  L’obbligo della richiesta del certificato non riguarda, ricorda la circolare n. 9/2014, “i dirigenti, i responsabili, i preposti e, comunque, quelle figure che sovraintendono alla attività svolta dall’operatore diretto, che poissono avere un contatto solo occasionale con i destinatari della tutela”.

Contatti diretti e regolari: la disposizione non si riferisce, chiaramente, a tutte quelle situazioni lavorative caratterizzate da episodicità, sia pur relativa. Ciò significa che sono, senz’altro, da escludere dall’obbligo di certificazione quei lavori che, seppur portino a contatto con minori, sono caratterizzati da episodicità sia pure ripetuta, ove la caratteristica è rimessa a situazioni non preventivabili e che non comportano, “a priori”, la necessità dei contatti regolari: mi riferisco, ad esempio, ai camerieri o ai barman dei locali pubblici ai quali i  minori possono rivolgersi per acquistare gelati o bibite. Al contrario,  vi rientrano, a pieno titolo, quelle professioni o lavori che comportano, strutturalmente, contatti con  minori come quelli espletati  da insegnanti, bidelli, educatori, allenatori ed istruttori sportivi per ragazzi, pediatri, animatori turistici per bambini o minorenni, conducenti di scuola bus, pur se ci si avvale di collaboratori che rilasciano fatture con partita IVA, atteso che ciò che rileva è non è la natura della prestazione che può svolgersi in  maniera autonoma o subordinata, ma l’attività svolta in  continuo contatto con minori.

L’ambito di applicazione dell’obbligo certificativo in caso di nuova assunzione appare abbastanza ampio, ben oltre la casistica alla quale, in genere, si pensa e che è stata, sia pure in maniera non esaustiva, sopra riportata: il pensiero corre, infatti, alle attività dello spettacolo cinematografico, televisivo o teatrale che, indubbiamente, non sono limitate alla sola rappresentazione ma che presuppongono prove, talora lunghe e ripetitive, a quelle  circensi, alle attività di tirocinio curriculare ed extra curriculare dei minorenni presso le imprese o i centri di formazione professionale, ai rapporti di lavoro instaurati con un nuovo dipendente che, in ragione del proprio lavoro viene a contatto diretto e regolare nell’ambiente di lavoro, talora anche limitato per quel che riguarda gli spazi, con un minore titolare di un rapporto di apprendistato di primo livello.

Ma, allora, quando è che non si richiede il certificato?

L’obbligo non scatta, oltre che per i dipendenti in forza (ma in caso di contratto a termine non  prorogato ma rinnovato, va chiesto ogni volta se si riscontra questo contatto continuo e diretto) anche per quei soggetti che svolgano attività con forme di collaborazione che non si strutturino con un definito rapporto di lavoro ma restino confinate nella pura attività di volontariato,  di aiuto e di partecipazione alla vita di una collettività senza che ciò possa configurarsi come prestazione lavorativa. Da ciò ne consegue, afferma il Ministero del Lavoro, della inoperatività della disposizione sotto l’aspetto sanzionatorio, atteso che tali organizzazioni di volontariato ne restano fuori almeno fino a quando non assumano la veste di datore di lavoro.

Cosa succede se il datore di lavoro non rispetta l’onere imposto dalla legge?

La sanzione prevista è compresa tra i 10.000 ed i 15.000 euro: così stabilisce il comma 2 dell’art. 25 –bis senza, peraltro, indicare sia i soggetti abilitati a rilevarla ed a sanzionarla che l’organo competente alla emissione dell’ordinanza – ingiunzione in  caso di inottemperanza.

Alcuni ragionamenti si ritengono, a questo punto, necessari, anche alla luce della legge n. 689/1981.

Il primo scaturisce dall’art. 1 ed è un principio di legalità: la sanzione non può essere applicata, per analogia, a chi non riveste la qualifica di datore di lavoro (si pensi, ad esempio, agli organizzatori di feste parrocchiali o del Santo Patrono).

Su questo, almeno per l’esclusione del profilo sanzionatorio, il Ministero del Lavoro è stato chiaro. Nel caso in cui il datore di lavoro sia una società per azioni o a responsabilità limitata, la sanzione andrà notificata al legale rappresentante, mentre  in quella “in nome collettivo” andrà notificata a tutti i soci, salvo il caso in cui non sia stato, preventivamente, indicato chi fra di loro è stato delegato alla gestione degli adempimenti del personale.

La seconda questione da affrontare riguarda l’individuazione dei soggetti deputati sia alla constatazione della violazione, che alla sua contestazione e notifica. La risposta è che, trattandosi di certificato attinente l’assunzione di un  lavoratore, la competenza  possa individuarsi in tutti quei soggetti deputati al controllo della regolarità dei rapporti di lavoro (Ispettori del lavoro, Carabinieri, Guardia di Finanza, ecc.).

Il terzo problema concerne l’individuazione dell’organo che, in caso di inottemperanza, deve emettere l’ordinanza – ingiunzione che va pagata, fatto salva la possibilità del ricorso amministrativo o giudiziale, entro i trenta giorni successivi alla ricezione della notifica. La soluzione dello stesso si trova leggendo l’art. 17 della legge n. 689/1981: “qualora non sia stato effettuato il pagamento in misura ridotta (che, nel caso di specie, è pari a 5.000 euro, ossia al 1/3 del massimo), il funzionario o l’agente che ha accertato la violazione …..deve presentare rapporto con la prova delle eseguite contestazioni o notificazioni all’ufficio periferico  cui sono demandate attribuzioni e compiti del Ministero nella cui competenza rientra la materia alla quale si riferisce la violazione o, in mancanza, al Prefetto”. Nel nostro caso, la competenza è radicata presso l’Ispettorato territoriale del Lavoro, competente per territorio, atteso che la violazione dell’obbligo è connessa alla costituzione del rapporto di lavoro.

Ma, dopo essermi soffermato sia sul testo normativo (tra l’altro, corretto, di recente, in un passaggio dal D.L.vo n. 122/2018) ritengo, sulla base di quanto accaduto nell’episodio di cronaca recente, che la norma presenti una grossa “falla”: il datore di lavoro deve chiedere il certificato al casellario giudiziale soltanto per i nuovi rapporti ed al momento dell’assunzione: così afferma il Legislatore e così’ ribadiscono i due Ministeri interessati (Giustizia e Lavoro) nelle note emanate, immediatamente a ridosso, dell’entrata in vigore della disposizione (Giustizia, 3 aprile e 27 luglio 2014 – Ministero del Lavoro circolare n. 9 dell’11 aprile e interpello n. 25 del 15 settembre 2014 per un quesito di Federalberghi).

Qui non si discute, assolutamente, sulla posizione assunta dai Ministeri interessati: la disposizione si limita a circoscrivere l’obbligo al momento della instaurazione dei nuovi rapporti ed è, perfettamente, in linea con l’art. 10, paragrafo 2, la Direttiva 2011/93/UE secondo la quale “gli Stati membri adottano le misure necessarie per assicurare che i datori di lavoro adempiano agli obblighi prima dell’assunzione”: voglio, però, sottolineare come si rischi di lasciare a contatto con i minori, lavoratori che, nel corso dello svolgimento del rapporto (che, magari, si svolge in maniera ininterrotta, per anni ed anni), vengono condannati per reati che hanno a che fare con le violenze sui bambini e sugli adolescenti e sulla pedopornografia.

Mi auguro che, alfine di non vanificare gli aspetti positivi che, indubbiamente, si riscontrano nella disposizione, il Legislatore provveda a fare in modo che situazioni di tal genere, avvenute durante lo svolgimento del rapporto possano essere conosciute dal datore di lavoro per i necessari provvedimenti conseguenti, non ultimo, quello, in presenza di una sentenza di condanna, della risoluzione del contratto.

Autore

Eufranio Massi
Eufranio Massi 321 posts

E' stato per 40 anni dipendente del Ministero del Lavoro. Ha diretto, in qualità di Dirigente, le strutture di Parma, Latina, i Servizi Ispettivi centrali, Modena, Verona, Padova e Piacenza. Collabora, da sempre, con riviste specializzate e siti web sul tema lavoro tra cui Generazione vincente blog.

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