Congedo straordinario e licenziamento [E.Massi]

La Corte di Cassazione interviene nel dibattito circa i limiti della questione della conservazione del posto in favore di un dipendente che fruisca del congedo straordinario previsto dalla L. 104/92.

Congedo straordinario e licenziamento [E.Massi]

Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 5425 del 25 febbraio 2019, inquadra la questione della conservazione del posto in favore di un dipendente che fruisce del congedo per gravi motivi familiari già previsto dall’art. 4, comma 2, della legge n. 53/2000 e richiamato dall’art. 42 del D.L.vo n. 151/2001.

Prima di entrare nel merito della decisione della Suprema Corte reputo opportuno effettuare un breve “excursus” sull’istituto, ricordando che per effetto di decisioni della Corte Costituzionale, l’originaria norma è stata oggetto di progressivi “allargamenti”.

I lavoratori possono richiedere un congedo continuativo o frazionato per gravi e documentati motivi familiari per un periodo non superiore a due anni di calendario (comprensivi dei giorni festivi e delle giornate non lavorative), conservando il posto di lavoro, senza alcuna retribuzione e con l’assoluto divieto di svolgere altra attività lavorativa. Le frazioni di congedo inferiori al mese si sommano ed il mese viene calcolato al raggiungimento dei 30 giorni. Tutto il periodo non viene computato nell’anzianità di servizio ed è “neutro” ai fini previdenziali: esso, tuttavia, può essere riscattato, secondo il criterio della c.d. “prosecuzione volontaria”.

Le gravi motivazioni che rendono possibile la richiesta sono evidenziate nell’art. 2 del D.M. n. 278/2000:

  • Necessità familiari che discendono dal decesso di un componente della famiglia anagrafica o dei soggetti per i quali sussiste l’obbligo degli alimenti, seppur non conviventi. In tale elenco rientrano il coniuge, il convivente se tale status risulta da certificazione anagrafica, l’altra parte dell’unione civile, i figli, anche adottivi ed i loro discendenti prossimi, i genitori o i nonni, gli adottanti, i generi e le nuore, il suocero e la suocera, i fratelli e le sorelle;
  • Situazioni che comportano un impegno particolare nella cura e nell’assistenza delle persone indicate sub a);
  • Situazioni di grave disagio personale;
  • Situazioni relative ai familiari derivanti da patologie croniche ed acute che determinano la perdita temporanea o permanente dell’autonomia personale, o che richiedono una assistenza continuativa del familiare nel trattamento sanitario, o che siano strettamente correlate all’infanzia o all’età evolutiva, o che riguardino un programma terapeutico e riabilitativo che richiede il coinvolgimento dei genitori o di chi esercita la patria potestà.

Spetta alla contrattazione collettiva disciplinare le modalità di partecipazione a corsi di formazione finalizzati alla piena reintegrazione nell’attività lavorativa dei soggetti che rientrano dopo un periodo di sospensione.

In mancanza di specifiche definizioni contrattuali, il datore di lavoro è tenuto ad esprimersi in ordine alla richiesta avanzata per il congedo, entro 10 giorni e a fornirne comunicazione al dipendente. Il diniego o la proposta di rinvio vanno adeguatamente motivati sulla base delle ragioni organizzative.

La Cassazione ricorda che:

  • Il congedo, pur essendo un diritto potestativo dell’interessato, non può essere fruito senza il consenso del datore di lavoro e senza che quest’ultimo abbia potuto controllare le effettive esigenze (Cass., 12 febbraio 2015, n., 2803);
  • In caso di contraddittorio se il lavoratore ha trasmesso la documentazione o fornito i chiarimenti richiesti, il datore di lavoro deve provvedere entro 10 giorni (può proporre anche soluzioni alternative): in mancanza l’assenza del lavoratore si ritiene giustificata (Cass., 27 giugno 2017, n. 15973).

Il rientro dal congedo può essere anche anticipato, con comunicazione preventiva al datore di lavoro: se durante l’assenza il dipendente è stato sostituito con un altro lavoratore assunto a tempo determinato (l’ipotesi, oggi, rientra tra le causali sostitutive, previste dall’art. 19 del D.L.vo n. 81/2015, come modificato dalla legge n. 96/2018 che ha convertito, con modificazioni, il D.L. n. 87/2018), è necessario un preavviso di 7 giorni, pur potendo il datore consentire il rientro prima del loro decorso.

Fin qui la disposizione di legge che tende a facilitare i lavoratori che, loro malgrado, si trovano in situazioni di profonda difficoltà familiare.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5425/2019 si è trovata ad affrontare la questione in quanto investita dal ricorso di un lavoratore il quale lamentava un “errore di diritto” nella decisione della Corte di Appello che aveva ritenuto legittimo il licenziamento adottato dal datore di lavoro a seguito di una procedura collettiva di riduzione di personale, attivata e conclusa secondo l’iter previsto dalla legge n. 223/1991.

Il ricorrente sosteneva come con il recesso posto in essere, il datore di lavoro avesse violato la norma che impone la conservazione del posto (art. 4, comma 2, della legge n. 53/2000) per tutto il periodo di fruizione del congedo familiare, con la conseguenza della reintegra “piena” nel posto di lavoro secondo la previsione convenuta nell’art. 18, comma 1, della legge n. 300/1970.

La Suprema Corte ha, invece, affermato la piena legittimità del recesso intimato, affermando che la previsione speciale contenuta nella disposizione del 2000, impedisce soltanto di procedere ad un licenziamento riconducibile alla fruizione del congedo straordinario e non contrasta con il diritto dell’imprenditore di procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro sulla base di altre situazioni che riguardano l’organizzazione dell’azienda e le difficoltà operative della stessa, evidenziatesi nel licenziamento collettivo intimato al termine della procedura prevista dagli articoli 4 e 5 della legge n. 223/1991.

Ma come giustifica la Cassazione tale ragionamento?

Il diritto alla conservazione del posto durante l’assistenza di un familiare portatore di grave handicap presenta una forte valenza sociale in quanto destinato a garantire la conservazione del posto, per un periodo massimo di due anni, al lavoratore che si trova in un momento di grossa difficoltà ed in tale ambito va circoscritto.

Nulla, però, afferma la Suprema Corte circa gli effetti del licenziamento, atteso che al momento del recesso il lavoratore non aveva interamente fruito del periodo complessivo.

Scattano da subito o dalla fine del periodo di congedo?

I giudici di legittimità non si sono espressi, affermando che la questione non era stata sollevata il Corte di Appello e, quindi, che si trattava di una nuova domanda sulla quale non era intervenuta alcuna decisione nel merito.

A mio avviso, se il licenziamento collettivo esula dalle garanzie previste dall’art. 4, comma 2, della legge n. 53/2000, la risposta non può che essere una sola: gli effetti del recesso decorrono dal momento in cui la lettera di risoluzione del rapporto è giunta nella sfera cognitiva del lavoratore e non alla fine del periodo di permesso.

Se, quindi, il licenziamento intimato è pienamente legittimo in quanto riferito a situazioni estranee a motivazioni riconducibili alla fruizione del congedo straordinario, anche l’eventuale impugnativa deve seguire le regole fissate per i licenziamenti collettivi come quelle relative a vizi nella procedura o alla errata individuazione dei criteri di scelta con le conseguenze tipiche correlate: se il licenziamento riguarda un lavoratore assunto prima del 7 marzo 2015 con una violazione, ad esempio, di questi ultimi, la sentenza del giudice comporterà la reintegra nel posto di lavoro con il pagamento delle retribuzioni e della contribuzione fino al momento della effettiva riassunzione e con la possibilità per il dipendente di esercitare il c.d. “opting out” con la rinuncia al posto di lavoro e con l’erogazione, da parte del datore di lavoro, di quindici mensilità. Se, invece, la risoluzione del rapporto, ritenuta illegittima, riguarderà un lavoratore assunto con le c.d. “tutele crescenti”, sotto la vigenza del D.L.vo n. 23/2015, scatterà una indennità che, dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 194 dell’8 novembre 2018, non potrà essere più, solamente, ancorata al criterio dell’anzianità aziendale (due mensilità all’anno partendo da una base di tre calcolate sull’ultima retribuzione utile ai fini del computo del TFR) ma potrà, con motivazione, prevedere la valutazione di altri criteri come quelli ex art. 8 della legge n. 604/1966 (numero dei dipendenti dell’azienda, contesto socio economico, comportamento tenuto dalle parti, ecc.), fino a raggiungere il tetto massimo delle trentasei mensilità.

La Suprema Corte si è pronunciata (perché questo era il caso prospettato nel ricorso) soltanto sulla legittimità di un licenziamento a seguito di una procedura collettiva: ovviamente, pare logico pensare che tale principio possa valere anche in altre ipotesi legate come, ad esempio, ad giustificato motivo soggettivo per fatti accertati durante il periodo in cui il lavoratore era in servizio.

Autore

Eufranio Massi
Eufranio Massi 321 posts

E' stato per 40 anni dipendente del Ministero del Lavoro. Ha diretto, in qualità di Dirigente, le strutture di Parma, Latina, i Servizi Ispettivi centrali, Modena, Verona, Padova e Piacenza. Collabora, da sempre, con riviste specializzate e siti web sul tema lavoro tra cui Generazione vincente blog.

Vedi tutti gli articoli di questo autore →

0 Commenti

Non ci sono Commenti!

Si il primo a commentare commenta questo articolo!

Rispondi

Solo registrati possono commentare.