La conciliazione per i licenziamenti dei nuovi assunti del jobs act

editoriale di Eufranio MassiLa disposizione che mi accingo a commentare è contenuta nell’art. 6 dello schema di Decreto Legislativo sul contratto a tutele crescenti per il quale è stato richiesto il parere alle Commissioni Lavoro di Camera e Senato e che, presumibilmente, andrà in Gazzetta Ufficiale intorno alla metà del prossimo mese di febbraio.

Come è noto (cosa ampiamente dibattuta nei mesi scorsi sia tra gli operatori che sui “media”) il superamento progressivo delle tutele previste dall’art. 18 avviene con  le puntualizzazioni sul contratto a tutele crescenti ove, per queste ultime, si intendono, sostanzialmente, indennità risarcitorie che aumentano nel tempo e che sono strettamente legate all’anzianità di servizio, fatte, ovviamente, salve le ipotesi di reintegrazione susseguenti a recessi nulli, inefficaci o disciplinari, per fatti rilevatisi insussistenti. Tutto questo riguarda i “neo assunti”  (che non sono, necessariamente, giovani), ma che sono coloro che instaurano un  rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con qualsiasi datore di lavoro (ad eccezione di quello domestico) a partire dal giorno successivo alla pubblicazione del provvedimento in Gazzetta Ufficiale la legge n. 183/2014 ha tolto per i decreti delegati del Jobs act la “vacatio” quindicinale).

Nel quadro complessivo dei nuovi istituti e, soprattutto, delle conseguenze legate ai provvedimenti di licenziamento, il Legislatore delegato ha ipotizzato “una offerta di conciliazione ”, il cui scopo è quello di evitare, nei limiti del possibile, il ricorso all’autorità giudiziaria i cui ambiti di intervento si sono, oggettivamente, ristretti, essendo, nella maggior parte dei casi, relegati alla mera individuazione dell’importo risarcitorio.

Ma cosa dice l’art. 6 dello schema di Decreto Legislativo?

Il datore di lavoro, nei sessanta giorni successivi al licenziamento, può, di propria iniziativa offrire al lavoratore in una sede protetta (commissione provinciale di conciliazione – 410 cpc -, sede sindacale – 411 cpc -, organismi di certificazione – Enti bilaterali, Province, se costituite le commissioni, Direzioni del Lavoro, Ordini provinciali dei Consulenti del Lavoro – art. 82 del D.L.vo n. 276/2003) una somma, esente da IRPEF e non assoggettata ad alcuna contribuzione previdenziale, pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto rapportata ad ogni anno di servizio, in misura non inferiore a due e non superiore a diciotto: il tutto attraverso la consegna di un assegno circolare. L’accettazione dell’assegno ha una duplice conseguenza: l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia a qualsiasi impugnativa, pur se già proposta.

L’articolo si conclude con due commi che riguardano la copertura economica a carico dell’Erario ed il monitoraggio della disposizione.

Con il primo 2 milioni di euro vengono stanziati per il 2015, 7 milioni e novecentomila per il 2016 e 13 milioni ed ottocentomila per il 2017. Gli importi sono detratti dal Fondo istituito presso il Ministero del Lavoro dall’art. 1, comma 107, della legge n. 190/2014 per il quale è stata prevista una dotazione di 2.200 milioni di euro per ciascun anno a partire dal 2015 e proseguendo per il 2016 ed il 2017 e di 2.000 milioni a decorrere dal 2017. Tali importi serviranno, oltrechè per lo scopo appena evidenziato, per la riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e le politiche attive, per il riordino dei rapporti di lavoro e per l’attività ispettiva, per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro.

Con il secondo si afferma che il monitoraggio sull’attuazione della disposizione è assicurato dal sistema di controllo e valutazione previsto dall’art. 1, comma 2, della legge n. 92/2012.

La norma appena descritta mi spinge a fare alcune riflessioni.

L’offerta per la conciliazione, che, ripeto, è facoltativa ed alla quale il lavoratore è libero di rispondere o meno, si presenta abbastanza favorevole per quest’ultimo che, anche in considerazione dell’abbattimento dell’IRPEF, può ottenere un importo notevolmente vicino a quello che potrebbe ottenere in giudizio (vanno tenute presenti anche le spese legali).

La dizione parla di “licenziamento” dei lavoratori nuovi assunti, senza alcuna distinzione circa la motivazione, specificando che l’offerta economica (incentivata con il contributo dell’Erario, è bene ricordarlo) è finalizzata ad “evitare il giudizio”. A mio avviso, nell’ampia accezione riportata dal Legislatore delegato, non sono comprese le ipotesi di recessi nulli o inefficaci ove la motivazione è assolutamente protetta dalla legge (tutela della maternità, del matrimonio, delle appartenenze religiose, politiche, sessuali e sindacali) per i quali il Legislatore sia nell’art. 18 della legge n. 300/1970 che, ora, nell’art. 2 del decreto legislativo, ha previsto una tutela piena con la reintegrazione, il pagamento delle retribuzioni maturate fino alla effettiva ripresa in servizio, il versamento dei contributi previdenziali e la possibilità, in capo solo al lavoratore, di rinunciare alla reintegra, dietro versamento di quindici mensilità. Se fosse ammessa la conciliazione, essa sarebbe incoerente con il quadro normativo in quanto lo Stato contribuirebbe, attraverso la non assoggettabilità delle somme corrisposte all’IRPEF, all’aggiramento di norme cogenti. Sarebbe, quindi, oltremodo necessario, nella stesura definitiva, del provvedimento, un chiarimento specifico.

La seconda riflessione riguarda le modalità dell’offerta del datore di lavoro: è soltanto lui che può rivolgersi ad una “sede di conciliazione protetta”, che garantisce la inoppugnabilità dell’accordo, entro i sessanta giorni successivi al licenziamento (termine che appare perentorio), offrendo al lavoratore una cifra che è la stessa norma a specificare: una annualità (partendo da un minimo di due, per scoraggiare le assunzioni “usa e getta”, magari incentivate), dell’ultima retribuzione globale di fatto, fino ad un massimo di diciotto (l’art. 8 specifica che l,e frazioni di anno sono riproporzionate e che quelle di mese pari o superiori a quindici giorni si calcolano come mese intero). L’importo riconosciuto non costituisce reddito IRPEF (nel nostro ordinamento c’è il precedente dei voucher per il lavoro accessorio fino a 5.000 euro netti, come specificato dall’art. 72 del D.L.vo n. 276/2003) e sullo stesso non grava alcun onere previdenziale.

Da un punto di vista procedurale si può pensare che l’organo di conciliazione adito convochi le parti fissando il giorno e l’ora dell’incontro al quale le stesse (in particolar modo il lavoratore) possono essere assistite o rappresentate (secondo le usuali regole che disciplinano la delega) da soggetti esterni come rappresentanti di associazioni sindacali o professionisti (la disposizione non mette alcun divieto).

La discussione, alla quale il datore di lavoro si presenta con un assegno circolare con l’importo già prefissato strettamente correlato all’anzianità di servizio potrebbe non essere del tutto semplice per alcune motivazioni riconducibili ad una serie di questioni:

a)      il conto relativo ai mesi di rapporto di lavoro è stato effettuato comprendendo anche un periodo di attività svolta in nero prima della instaurazione del rapporto di lavoro avvenuta con la comunicazione di assunzione inviata on–line al centro per l’impiego: è plausibile una conciliazione sul licenziamento, che riguardi tutto il rapporto? La risposta positiva si scontra con la circostanza che, ad esempio, l’annualità in nero (cosa molto frequente in alcuni contesti del nostro Paese soprattutto nelle aziende di piccole dimensioni) venga, indirettamente, coperta da uno sgravio IRPEF a carico della fiscalità pubblica e ciò non appare assolutamente legittimo;

b)      il ruolo dell’organo collegiale (commissione provinciale di conciliazione, organismo sindacale, commissione di certificazione) è, puramente, notarile, finalizzato a prendere atto dell’offerta datoriale che presuppone, a monte, un mero calcolo matematico delle annualità da corrispondere (come sembra apparire da una prima lettura della norma), oppure c’è un minimo di spazio per verificare l’essenza della conciliazione? Sicuramente, il Ministero del Lavoro fornirà gli opportuni chiarimenti amministrativi, ma, a mio avviso, l’organo collegiale non potrà sottrarsi, quantomeno, ad una verifica degli importi che, quale base di calcolo, avranno l’ultima retribuzione globale di fatto percepita, ricordando al lavoratore che con la sottoscrizione dell’accordo e l’accettazione dell’assegno circolare, viene meno qualsiasi rivendicazione relativa alla impugnazione del licenziamento;

c)      il “quantum” dell’assegno circolare è, sostanzialmente, determinato dal Legislatore delegato: ma, cosa succede, se il datore di lavoro, anche per venire incontro ad alcune richieste “tacite” relative all’intercorso rapporto di lavoro, intendesse alzare la somma, lasciando, comunque, quale motivazione soltanto quella del licenziamento? A mio avviso, questo può accadere, ma la somma aggiuntiva non può essere esente da IRPEF, atteso che tale “bonomia” non può ricadere sulla fiscalità pubblica;

d)     può il datore di lavoro, con la sottoscrizione del verbale di conciliazione, chiudere anche le altre questioni eventualmente correlate all’intercorso rapporto di lavoro (trattamento di fine rapporto, differenze paga, lavoro straordinario, ferie non godute, ecc.)? L’oggetto della convocazione ex art. 6 avanti all’organo collegiale ha, come motivazione soltanto quella della necessità di eliminare o ridurre il contenzioso giudiziale in materia di licenziamenti. Però, gli organi collegiali sopra indicati hanno la potestà di chiudere anche le eventuali controversie relative a rivendicazioni economiche: quindi l’accordo, magari “a latere” di quello principale, può riguardare anche gli aspetti economici. Per far ciò, tuttavia, occorre che il lavoratore abbia piena conoscenza di quanto gli viene offerto a tale titolo, che sappia della inoppugnabilità della transazione e che, soprattutto, se ha necessità di verificare i conteggi, gli venga concesso dall’organo collegiale un tempo tecnico di verifica che potrà fare, ad esempio, con la propria organizzazione sindacale;

e)      una conciliazione relativa alla “voce” licenziamento che copra anche periodi in nero, ha effetti anche sugli eventuali controlli degli organi di vigilanza? La risposta è negativa (anzi, aver “coperto” delle annualità in nero è una ammissione di colpa), atteso che, nei limiti della prescrizione, gli stessi possono procedere al recupero dei contributi ed alla irrogazione delle sanzioni per lavoro nero e per altre situazioni scaturenti dall’intercorso rapporto di lavoro, come affermato sia dalla Cassazione con le sentenze n.17485 del 28 luglio 2009 e n. 6663 del 9 maggio 2002 e dall’INPS con la circolare n. 263/1997. In particolare la Suprema Corte con la prima delle decisioni sopra menzionate ha affermato che sulle somme corrisposte dal datore di lavoro a titolo di transazione, l’INPS è abilitato ad azionare il credito contributivo, nei limiti della prescrizione, provando, con qualsiasi mezzo, le eventuali somme corrisposte a tale titolo, assoggettabili a contribuzione;

f)       che valore possono assumere, ai fini del giudizio, il verbale di mancato accordo o, anche, il verbale di assenza per mancata presenza del lavoratore? Nessun valore è la risposta, atteso che la conciliazione è facoltativa e, stando al nuovo impianto normativo che traspare dal Decreto Legislativo, a meno che non ci si trovi in presenza di un licenziamento nullo, inefficace, discriminatorio o disciplinare per un fatto rilevatosi totalmente insussistente, il giudice di merito è tenuto a confermare il recesso al giorno della interruzione del rapporto, con la liquidazione dell’indennità risarcitoria correlata esclusivamente all’anzianità di servizio.

Per completezza di informazione vale la pena di ricordare come per i lavoratori licenziati da imprese sopra dimensionate alle quindici unità, per le quali è obbligatorio il tentativo di conciliazione in quanto previsto per i recessi per giustificato motivo oggettivo dall’art. 7 della legge n. 604/1966, era già possibile tentare la strada della risoluzione conciliativa  concernente il proprio licenziamento attivando la conciliazione facoltativa prevista dall’art. 409 cpc, espletabile ex art. 410 cpc con la procedura minuziosamente prevista dalla riforma introdotta dal 24 novembre 2010 dalla legge n. 183/2010.

Potrebbe accadere, perciò, che le due richieste “si incontrino”, pur seguendo strade diverse, in quanto per quella prevista dall’art. 410 cpc (pensata, quasi, mi si passi il termine un po’ malizioso, per non farla percorrere), prevede alcuni passaggi burocratici che, non consentono, alla commissione provinciale di conciliazione di convocare le parti, se non c’è stata l’adesione del convenuto:

a)      richiesta presentata alla commissione, a mano, o tramite raccomandata, inviata anche all’altra parte, con l’indicazione del “petitum” (nel nostro caso esso è rappresentato dall’esame del licenziamento ma, oltre a questo, potrebbe anche esser più sostenuto, riferendosi a questioni di natura economica afferenti l’intercorso rapporto di lavoro);

b)      possibilità per il convenuto, di proporre le proprie controdeduzioni;

c)      esplicita adesione della controparte al tentativo di conciliazione, entro il termine di venti giorni dalla ricezione della lettera (termine, comunque, ordinatorio), senza la quale l’organo collegiale non può effettuare la convocazione per la trattazione della controversia.

Forse, il Legislatore delegato poteva inserire, magari riformando la norma, l’offerta di conciliazione del datore di lavoro all’interno della procedura già prevista, senza pensarne un’altra.   .

Per i “veterani” come si è detto, resta in vita il tentativo obbligatorio per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo che, stando ai dati ufficiali del Ministero del Lavoro, ha sortito, nei primi due anni di vigenza, un effetto positivo (cosa riconosciuta, ampiamente, dagli operatori). Il Legislatore (e mi chiedo perché) ha cambiato, introducendo questa forma facoltativa di conciliazione. C’è da osservare come ciò crei, comunque, una certa difficoltà di comprensione negli operatori e come negli ultimi quattro anni si sia intervenuti sulla conciliazione delle controversie di lavoro per tre volte, senza un coerente disegno strategico.

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Eufranio Massi
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E' stato per 40 anni dipendente del Ministero del Lavoro. Ha diretto, in qualità di Dirigente, le strutture di Parma, Latina, i Servizi Ispettivi centrali, Modena, Verona, Padova e Piacenza. Collabora, da sempre, con riviste specializzate e siti web sul tema lavoro tra cui Generazione vincente blog.

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1 Commenti

  1. Molto spesso accade che le modalità di pagamento delle somme, compreso il TFR, oggetto di conciliazione prevedano una rateizzazione.
    In caso di rateizzazione, il mancato rispetto anche di un sola scadenza di pagamento, dà diritto al lavoratore di esigere immediatamente il pagamento dell’intero importo pattuito essendo il verbale di conciliazione titolo immediatamente esecutivo.
    Ma che accade se il lavoratore accetta l’offerta conciliativa e dunque incassa l’assegno circolare immediatamente e dunque accetta la chiusura tombale della lite contemporaneamente accetta la dilazione delle altre somme per cui è intervenuta la conciliazione?
    In altri termini, se da un lato l’offerta conciliativa, se accettata, implica la definitiva impossibilità di ricorrere al giudice, dall’altro il mancato pagamento di una rata per le altre somme conciliate al contrario fa venir meno il presupposto dell’offerta conciliativa. E allora?

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