Il licenziamento (e le dimissioni) per matrimonio [E.Massi]

Il licenziamento (e le dimissioni) per matrimonio [E.Massi]

Una FAQ del Ministero del Lavoro (strumento  di risposta che viene sempre più adoperato al posto delle circolari) presente sul sito istituzionale relativa alla procedura per le dimissioni della lavoratrice per matrimonio dopo le novità introdotte con il modello approvato con il DM 15 dicembre 2015, attuativo dell’art. 26 del decreto legislativo n. 151/2015, suggerisce, a mio avviso, una piccola riflessione sulla tutela normativa susseguente alla celebrazione delle nozze.

Chiarisco, subito, che delle questioni relative alla efficacia delle dimissioni  parlerò  nell’ultima parte della stessa.

Il licenziamento per causa di matrimonio

La tutela della donna che contrae matrimonio risale ad oltre mezzo secolo fa, ossia alla legge n. 7 del gennaio 1963 ed è stata, poi, ripresa, “pari pari” nelle parole, dall’art. 35 del decreto legislativo n. 198/2006, il c.d. ” codice delle pari opportunità tra uomo e donna”.

Il licenziamento della lavoratrice ( sono escluse quelle addette ai servizi familiari e domestici) intimato per causa di matrimonio è nullo, con una presunzione relativa che opera nel periodo che decorre dalla richiesta delle pubblicazioni di matrimonio ( che sono quelle affisse nell’albo comunale e non quelle religiose appese alla porta della parrocchia – Cass., 16 febbraio 1988, n. 1651 -) in quanto segua la celebrazione, fino ad un anno dalla stessa. Le sole cause esimenti che lo legittimano (e qui il Legislatore opera un perfetto “pendant” con la previsione che concerne la lavoratrice in gravidanza e fino ad un anno dalla nascita del bambino inserita nell’art. 54 del decreto legislativo n. 151/2001), sono:

  • La colpa grave costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto. Secondo la Corte di Cassazione (Cass., 17 agosto 2004, n. 16060) il significato di questa definizione porta ad affermare che l’individuazione dei fatti che legittimano il recesso deve essere effettuata in maniera rigorosa, cosa che ha portato a riconoscere come legittimo il licenziamento giustificato da gravi inadempimenti come assenze ingiustificate ed inaffidabili (Cass., 11 giugno 2003, n. 9405);
  • La cessazione dell’attività dell’azienda presso la quale presta la propria attività. Secondo la Suprema Corte (Cass., 9 febbraio 1990, n. 941) nella definizione di ” cessazione dell’attività dell’azienda” rientra anche l’ipotesi della sola cessazione del ramo di azienda al quale è addetta la dipendente, sempre che sia stata accertata l’impossibilità di una sua utilizzazione in altri rami aziendali. La dizione adoperata dal Legislatore fa sì che il divieto di licenziamento operi anche nel caso di procedura collettiva di riduzione di personale, a meno che la stessa non coinvolga tutti i lavoratori con quella qualifica e non ci sia la possibilità di utilizzare la lavoratrice con mansioni diverse;
  • L’ultimazione delle prestazioni per le quali la lavoratrice e’ stata assunta. Tale ipotesi appare, in un certo senso, sovrapponibile con la successiva, ed è, nella sostanza, riferibile ad un contratto a termine, essendo, ad esempio, stato ritenuto illegittimo un licenziamento adottato nell’ambito di un appalto di pulizie ove l’impresa subentrante aveva assunto tutti i dipendenti con la sola eccezione di una lavoratrice, in forza a tempo indeterminato, assente per maternità (Cass., 27 agosto 2003, n. 12659);
  • La risoluzione del rapporto per scadenza del termine.

La presunzione di nullità (che sussiste anche per nozze successive alle prime) riguarda ogni provvedimento di licenziamento intervenuto nel periodo sopra considerato, indipendentemente dal momento in cui la decisione sia stata attuata (Cass., 3 dicembre 2013, n. 27055), quand’anche il matrimonio sia avvenuto prima della costituzione del rapporto e fatto salvo il recesso verificatosi  durante il periodo di prova se il datore non è a conoscenza  della causa impediente e fermo restando che il giudice, sulla base delle motivazioni addotte, si convinca, se adito, che la risoluzione del rapporto è intervenuta per motivi che esulano dallo “status” particolare ( Corte Costituzionale, 31 maggio 1996, n. 172, decisione posta in relazione allo stato di gravidanza). Tale presunzione opera anche nel caso in cui la lavoratrice abbia omesso di comunicare l’evento coniugale al proprio datore di lavoro (Cass., 31 agosto 2011, n. 17845). È onere del datore di lavoro provare, in giudizio, che il recesso non è avvenuto a causa del matrimonio (Cass., 9 aprile 2002, n. 5065; Cass., 10 novembre 2011, n. 23416).

Le conseguenze della dichiarazione di nullità sono, nella sostanza, le stesse sia per le lavoratrici assunte prima del 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 23/2015)  che per quelle il cui rapporto di lavoro si sia instaurato sotto l’imperio delle c.d. “tutele crescenti” : reintegra nel posto di lavoro (la sentenza è provvisoriamente esecutiva), con il pagamento delle retribuzioni dovute dal giorno del recesso fino quello della effettiva reintegra ( somma che, in ogni caso, non pu  essere inferiore alle 5 mensilità), detratto l’eventuale “aliunde perceptum”, e delle conseguenti contribuzioni previdenziali ed assistenziali. La lavoratrice pu  rinunciare alla reintegra (si tratta di un diritto potestativo al quale il datore deve soggiacere), qualora, entro 30 giorni dal deposito della pronuncia giudiziale o dall’invito del datore a riprendere servizio, se anteriore, chieda il pagamento di un importo di natura economica pari a 15 mensilità calcolate sull’ultima retribuzione di riferimento ai fini del calcolo del TFR (art. 2, comma 3,  del decreto legislativo n.23/2015), senza il versamento, in questo caso, di alcun contributo previdenziale ed assistenziale.

Ma, cosa succede se il datore di lavoro non adempie spontaneamente?

L’ordine pu  essere attuato in via esecutiva: ci  comporta l’adempimento coattivo di tutti gli effetti correlati alla sentenza con l’obbligo retributivo e la ricostruzione della posizione contributiva. Sotto l’aspetto penale l’inottemperanza datoriale trova una sanzione allorquando viene elusa in modo fraudolento l’esecuzione del provvedimento, cosa che non si realizza nella ipotesi in cui si continui a versare alla lavoratrice la retribuzione con dispensa dal prestare servizio.

Ma, la tutela nel periodo intercorrente dalla richiesta di affissione delle pubblicazioni di matrimonio fino ad un anno dalla celebrazione, riguarda anche il lavoratore?

Dopo un orientamento giurisprudenziale tendente ad escludere tale ipotesi sulla base della constatazione che la disposizione e’ finalizzata ad evitare che il datore risolva il rapporto in conseguenza dei “prevedibili costi” legati ad una eventuale maternità (Trib. Padova. 9 maggio 2000), si è fatta strada un’altra tesi (Trib. Milano, 3 giugno 2014) secondo la quale alla luce del decreto legislativo n. 198/2006 non è possibile discriminare in base al sesso, cosa che, del resto, è postulata anche dalla Direttiva 76/207/CE la quale all’art. 2 dichiara che ” il principio della parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso direttamente o indirettamente, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia”.   Secondo tale indirizzo il linguaggio “al femminile” adoperato dal Legislatore all’art. 35 del decreto legislativo  n. 198/2006 e’ un “retaggio del passato” quando soltanto la donna era destinataria di una serie di benefici legati alla maternità: ora, tutta una serie di istituti sono riferibili anche  al marito. È sufficiente, a tal proposito, soffermare l’attenzione sul congedo obbligatorio per maternità ( in presenza di fatti gravi come la morte della madre, l’abbandono del bambino da parte della stessa, l’affidamento giudiziale, in via esclusiva, al padre), sul ” mini congedo obbligatorio di due giorni nei primi 5 mesi di vita del bambino” – art. 4, comma 24, della legge n. 92/2012 -, sui congedi parentali e sui permessi per allattamento pur in presenza di una “moglie casalinga”, come stabilito dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 4618/2014 e dal TAR Puglia con la decisione n. 2427/2014.

Questa interpretazione, secondo il giudice di Milano, appare in linea con l’indirizzo sostenuto dalla Corte Costituzionale con l’ordinanza n. 207/2013, laddove si afferma che spetta al giudice nazionale ” valutare la compatibilità comunitaria della normativa interna”, con la conseguenza che, in questo caso, viene data una interpretazione conforme alla disciplina comunitaria, stante l’affermazione del primato del diritto comunitario.

Le dimissioni per causa di matrimonio

Detto questo, la riflessione non pu  che proseguire sulle dimissioni presentate nell’anno successivo al matrimonio, ricordando che il comma 4 dell’art. 35 del decreto legislativo n. 198/2006 ne afferma la nullità se non convalidate entro un mese avanti ad un funzionario della Direzione territoriale del Lavoro.

L’art. 26 del decreto legislativo n. 151/2015 aveva salvato dalla nuova procedura telematica soltanto la convalida delle dimissioni della madre e del padre entro i 3 anni successivi dalla nascita del bambino (dall’adozione o dall’affidamento) ed il Ministero del Lavoro, con la circolare n. 12/2016 aveva escluso, secondo un opinabile indirizzo amministrativo, le dimissioni dei dipendenti pubblici, quelle avvenute durante il periodo di prova e quelle del personale marittimo regolamentato da apposite disposizioni all’interno del codice della navigazione. Nulla  si era detto per le dimissioni rassegnate nell’anno dal matrimonio, quasi che le stesse fossero come “ignorate”.

A questo punto, e’ intervenuta una FAQ ( la n.3) sul sito istituzionale ( probabilmente, per rispondere al quesito di qualche interlocutore) e, finalmente, si è detto qualcosa relativamente a tale ipotesi.  La risposta appare, francamente, una complicazione burocratica non in linea con il principio ispiratore del decreto legislativo n. 151/2015: la semplificazione.

Vi si afferma che la dipendente deve “fare” ( uso il linguaggio adoperato dal Legislatore delegato nell’art. 26) le  dimissioni utilizzando la procedura telematica: esse, per espresso detto normativo, sono “efficaci”. Ebbene, le dimissioni che già sono efficaci e che sono state rese senza condizionamenti ( e’ questo il principio ispiratore dell’iter che postula il PIN INPS o la definizione delle stesse con l’ausilio di un soggetto “abilitato” che si fa garante della procedura e della identificazione della persona) debbono, poi, essere confermate entro un mese avanti ad un funzionario della Direzione territoriale del Lavoro ( questo passaggio e’ previsto espressamente dalla norma, ma la FAQ lo ignora ). Forse, sarebbe stato opportuno dire, come avviene per quelle ex art. 55, comma 4, del decreto legislativo n. 151/2001, che potevano essere rassegnate ” in via normale” con la successiva convalida in DTL.

Paradossalmente, si potrebbe verificare il caso di una donna che si reca presso una articolazione periferica del Ministero (non c’è neanche l’obbligo della competenza territoriale) ove le dimissioni possono essere “fatte” in via telematica, attraverso un funzionario, secondo la procedura individuata dal Dicastero nella nota del 24 marzo 2016 (e, quindi, efficaci). Un attimo dopo, le stesse, già “valide” ed inviate dal sistema informatico del Ministero all’indirizzo di posta elettronica del datore, debbono essere convalidate, magari nella stanza accanto, avanti ad un altro funzionario della DTL che porrà le domande di rito per accertare se la risoluzione del rapporto è stata oggetto di condizionamenti (cosa che la nuova procedura, per di più “fatta” con un funzionario pubblico, esclude): certo è che come “burocrazia creativa” in Italia non ci facciamo mancare nulla!

Autore

Eufranio Massi
Eufranio Massi 326 posts

E' stato per 40 anni dipendente del Ministero del Lavoro. Ha diretto, in qualità di Dirigente, le strutture di Parma, Latina, i Servizi Ispettivi centrali, Modena, Verona, Padova e Piacenza. Collabora, da sempre, con riviste specializzate e siti web sul tema lavoro tra cui Generazione vincente blog.

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