Durante un colloquio : “ma lei conosce l’azienda?”

Durante un colloquio : “ma lei conosce l’azienda?”

“Un giorno conobbi un uomo che aveva sostenuto un colloquio con Steve Jobs e si lamentava di come era stato trattato. Scoprii che aveva iniziato molto male, presentandosi in giacca, cravatta e gilet: rivelando all’ istante che non si era curato di informarsi sulla cultura aziendale di Apple. Poi quell’ uomo volle mostrare a Steve un lavoro fatto da lui di cui andava molto fiero: aprì la ventiquattrore e tirò fuori un portatile Dell. Il colloquio finì nell’ istante in cui Steve vide il portatile della nostra concorrenza”. Queste sono le parole di Jay Elliot, responsabile delle risorse umane della Apple sotto la presidenza di Steve Jobs, su un colloquio che un candidato sostenne ma che non andò a buon fine.

Questo divertente, forse non per il candidato, aneddoto ci mette di fronte ad un problema che i responsabili delle risorse umane hanno quando conducono un colloquio: la conoscenza da parte del candidato dell’azienda per cui si presentano.

La conoscenza dell’azienda a cui si chiede un colloquio o delle mansioni che potenzialmente si potrebbero ricoprire non sono obbligatorie ma dovrebbero essere almeno buona norma, se non altro perché dà un’idea di qualcuno che ha fortemente voglia di far parte di un progetto o di un team. Contrariamente può dare l’impressione di scarso interesse se non disinteresse completo.

Molte volte un giovane candidato si concentra sull’ impressione che possono dare i propri studi o le proprie capacità, dimenticando che fare un po’ di ricerca su coloro a cui ci stiamo relazionando può essere un fattore importantissimo. Tutte le domande di un colloquio di lavoro vengono concepite per scoprire se il candidato è adeguato per il lavoro, come reagisce sotto pressione e come si integra nel team ma anche questo aspetto può essere una discriminante, e non di secondaria importanza.

Quello che è capitato al candidato di cui si parla nell’ aneddoto potrebbe non essere una cosa troppo lontana dalla realtà, oggi in un mondo in costante introversione, per non dire individualista, il problema potrebbe porsi molto più spesso di quanto si creda. Il concentrarsi troppo sul proprio percorso accademico , sullo sviluppo delle proprie capacità e attitudini ci fa dimenticare che, nel caso di un esito positivo del colloquio con l’intervistatore, potremmo essere proiettati in un mondo in cui si rema tutti dalla stessa parte, con obiettivi comuni e impegno collettivo, ma se poi non conosciamo questi obiettivi o da che parte si deve remare la “via della porta” diventa una spiacevole conseguenza. Questo, va bene ricordarlo, anche nel caso di una lunga collaborazione.

Preparazione, quindi, è questa la chiave di tutto. Prepararsi ad affrontare quella che è a tutti gli effetti una partita a scacchi, una partita in cui uno dei giocatori deve valutare l’altro e capire se è adeguato al ruolo che gli si sta offrendo, capire quanto può dare e come contribuire ad un progetto, capire fino a che punto ci crede o fino a che punto può rendersi disponibile. Viene da se che il nemico numero uno per il candidato, a questo punto, è l’improvvisazione, cioè l’intuizione senza l’adeguata preparazione, troppo simile all’ affidarsi alla fortuna per vincere quella partita di cui sopra.

In conclusione è buona norma “fare i compiti a casa” ,cioè prepararsi al meglio delle proprie capacità anche riguardo al ruolo che si vuole svolgere e a chi ce lo sta offrendo. Oltre a fare bella figura si dimostra anche una sorta di “buona educazione” professionale.

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