I criteri di computo dei contratti a termine [ E. Massi]

I criteri di computo dei contratti a termine [ E. Massi]

Una disposizione relativa ai nuovi contratti a termine che è passata quasi inosservata è quella contenuta nell’art. 27 del D. L.vo n. 81/2015: qui il Legislatore delegato ha esteso alla “quasi” generalità dei casi ciò che nel 2013, per effetto della legge comunitaria n. 97, era stato previsto per il calcolo dei dipendenti ai fini delle garanzie delle rappresentanze sindacali aziendali ex art. 35 della legge n. 300/1970.

Prima di entrare nel merito delle novità introdotte credo che sia necessario ricordare come fu variato dal Legislatore il computo del contratto a termine ai fini sopra indicati.

Fino alla data di entrata in vigore della legge n. 97/2013, l’art. 8 del D.L.vo n. 368/2001, affermava che, ai fini del campo di operatività delineato dall’art. 35 della legge n. 300/1970, i contratti a termine erano computabili ove il rapporto avesse avuto una durata superiore a nove mesi.  L’art. 12 della legge comunitaria appena citata, prendendo lo spunto dalla procedura di infrazione della Comunità Europea n. 2010/2045 stabilisce che “i limiti prescritti dal primo e secondo comma dell’art. 35 della legge 20 maggio 1970, n. 300, per il computo dei dipendenti si basano sul numero medio mensile di lavoratori a tempo determinato impiegati negli ultimi due anni, sulla base dell’effettiva durata dei loro rapporti di lavoro”.

La disposizione, in vigore dal 4 settembre 2013, va correlata, ora, con il D.L.vo n. 81/2015, nella quale i lavoratori in mobilità, esclusi dalla disciplina speciale sui contratti a tempo determinato, vanno, in ogni caso, computati, ai fini dell’art. 25 (principio di non discriminazione) e 27 (computo per le finalità dell’art. 35 della legge n. 300/1970): ebbene, la circolare del Ministero del Lavoro n. 35/2013 afferma che i computabili (con le modalità stabilite dalla legge n. 97/2013) sono “esclusivamente quelli assunti a partire ….. dal 23 agosto 2013”.

L’art. 35 stabilisce che per le imprese industriali e commerciali le norme contenute nel titolo III (attività sindacale) ad eccezione del primo comma dell’art. 27 (locali a disposizione delle rappresentanze sindacali aziendali), si applicano a ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo che occupa più di quindici dipendenti. Per quelle agricole, invece, il limite dimensionale è fissato ad almeno sei dipendenti. Queste norme trovano applicazione anche nei confronti delle imprese industriali e commerciali che nello stesso comune occupano almeno sedici dipendenti e delle imprese agricole  che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, di per sé considerata, non raggiunge tali limiti. E’ appena il caso di ricordare come per unità produttiva si intenda, per giurisprudenza costante, quella entità aziendale che si caratterizzi per sostanziali condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica ed amministrativa, tali che in essa si svolga e si concluda il ciclo relativo, o una frazione, o un momento essenziale dell’attività produttiva aziendale.

Da quanto appena detto, discende una applicazione concreta dei nuovi criteri: in presenza di più contratti a termine sviluppatisi nel corso degli ultimi ventiquattro mesi (criterio mobile che va calcolato, a ritroso dal momento in cui sarà necessario fare il computo) dovranno essere sommate le durate dei singoli rapporti per cui, ad esempio, se nel biennio precedente sono stati stipulati contratti a tempo determinato di 8, 10 e 9 mesi, occorrerà sommare i periodi ed il risultato di 27 dovrà essere diviso per 24, dando un totale di 1, 12 arrotondato per difetto ad una unità lavorativa.

Detto questo, entro nel merito della questione osservando che il Legislatore delegato premette, all’applicazione della regola generale, la frase “salvo che sia diversamente disposto”, cosa che, ad esempio, riguarda una serie di disposizioni specifiche tra le quali spicca il computo relativo alla base di calcolo per i disabili.

L’art. 4, comma 27, della legge n. 92/2012, intervenendo sull’art. 4 della legge n. 68/1999, aveva cancellato, ai fini del calcolo, quell’esonero normativo concernente i rapporti a tempo determinato fino a nove mesi. Tale “status”, però, è durato soltanto pochi giorni, in quanto con l’art. 46 –bis della legge n. 134/2012 si è verificata una parziale “marcia indietro”, nel senso che, oggi, sono esclusi dal computo i contratti a termine di durata fino a sei mesi. Va, peraltro, sottolineato come il Ministero del Lavoro, con la circolare n. 18 del 18 luglio 2012, dettando le prime indicazioni operative alle proprie strutture periferiche, abbia affermato che nel computo non vanno inclusi i rapporti stipulati per la sostituzione di lavoratori aventi diritto alla conservazione del posto (es. maternità, infortunio, malattia, nel caso in cui questi ultimi siano stati già  calcolati) e che i singoli contratti vanno computati con riferimento all’anno (due rapporti a tempo determinato di sei mesi, valgono, ad esempio, una unità).

Un’altra norma particolare concerne il lavoro a tempo parziale e determinato, ove l’art. 9 del D.L.vo n. 81/2015 afferma che “ai fini della applicazione di qualsiasi disciplina di fonte legale o contrattuale per la quale sia rilevante il numero dei dipendenti, il lavoratori a tempo parziale sono computati in proporzione all’orario svolto, rapportato al tempo pieni. A tal fine, l’arrotondamento opera per le frazioni di orario che eccedono la somma degli orari a tempo parziale corrispondente ad unità intere di orario a tempo pieno”. I lavoratori a tempo parziale con contratto a termine, vanno computati pro-quota in relazione all’orario svolto ma, ovviamente, ai fini delle quantificazioni di organico previste dall’art. 35 della legge n. 300/1970 per l’applicazione di particolari garanzie, occorrerà effettuare il calcolo sulla base dei nuovi criteri introdotti dall’art. 12 della legge n. 97/2013.

Un discorso abbastanza analogo, nel senso che anche qui si rinviene una disposizione particolare, lo troviamo per il contratto intermittente ove l’art. 18 del D.L.vo n. 81/2015 afferma che ai fini dell’applicazione di qualsiasi disciplina legale o contrattuale per la quale sia rilevante il computo dei dipendenti del datore di lavoro, il lavoratore intermittente è computato nell’organico dell’impresa in proporzione all’orario di lavoro effettivamente svolto nell’arco di ciascun semestre.

C’è, poi, la disposizione specifica contenuta nell’art. 18, comma 9, della legge n. 300/1970 ove si afferma che ai fini del computo dei dipendenti lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale vanno calcolati “per la quota di orario effettivamente svolto”.

Un altro istituto sul quale si incide, ai fini della computabilità, è quello della sicurezza.

L’art. 4, comma 1, lettera d), del D.L.vo n. 81/2008, che tratta, invece, gli obblighi in materia di sicurezza ed igiene sul lavoro,  esclude dal computo dei dipendenti utile per far scattare particolari obblighi in materia di sicurezza ed igiene sul lavoro, i soggetti che sono stati assunti con contratto a tempo determinato in sostituzione di lavoratori aventi diritto alla conservazione del posto.

Va ricordato, inoltre,  come i contratti a termine siano espressamente esclusi dal computo del personale in forza alla data del 1° gennaio dell’anno al quale si riferiscono le assunzioni a tempo determinato: infatti, l’art. 23 del D.L.vo n. 81/2015, comprende, nella base di calcolo, unicamente i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato.

Ma, allora, su chi va ad incidere la nuova determinazione contenuta nell’art. 27?

Innanzitutto, sulle imprese artigiane e, soprattutto, sui limiti dimensionali previsti dalla legge n. 443/1985 ma anche (probabilmente, con effetti positivi per l’impresa) sui limiti dimensionali delle aziende con un organico inferiore alle venti unità le quali, in caso di sostituzione di una lavoratrice avente diritto alla conservazione del posto, godono per un massimo di dodici mesi di una franchigia contributiva pari al 50%.

C’è, infine, quello che a me sembra l’aspetto di maggiore impatto: quello relativo ai limiti dimensionali per l’applicazione della procedura di mobilità e dei trattamenti conseguenti, dei trattamenti integrativi, e della disciplina dei fondi di solidarietà per i quali è in corso l’iter di approvazione del Decreto delegato e che, presumibilmente, andrà in Gazzetta Ufficiale verso la fine del prossimo mese di agosto. Qui si parla (art. 13 della bozza di decreto approvato, in prima lettura, dal Consiglio de Ministri) di percentuali variabili della contribuzione ordinaria legate al numero dei dipendenti, del numero medio di più di quindici dipendenti riferito al semestre precedente per gli interventi integrativi straordinari (art. 20), del numero individuato dalle parti sociali ai fini dei fondi di solidarietà bilaterali (art. 26), del fondo di solidarietà residuale (numero superiore alle quindici unità, secondo la dizione dell’art. 28) e del fondo di interazione salariale che dovrebbe riguardare i datori di lavoro che occupano mediamente più di cinque dipendenti (art. 29)  e che non rientrano nell’ambito di applicazione previsto dalla normativa generale. Quanto appena detto potrebbe avere un impatto notevole sia sulla contribuzione dovuta che sulle prestazioni.

Ma qui, come sempre, occorrerà attendere ciò che sarà scritto nella versione definitiva del Decreto e, soprattutto, l’orientamento sia del Ministero del Lavoro che dell’INPS.

Autore

Eufranio Massi
Eufranio Massi 323 posts

E' stato per 40 anni dipendente del Ministero del Lavoro. Ha diretto, in qualità di Dirigente, le strutture di Parma, Latina, i Servizi Ispettivi centrali, Modena, Verona, Padova e Piacenza. Collabora, da sempre, con riviste specializzate e siti web sul tema lavoro tra cui Generazione vincente blog.

Vedi tutti gli articoli di questo autore →