Collaborazione coordinata e continuativa dopo la riforma

Il D.L. di riordino dei contratti di lavoro e mansioni interviene prevedendo alcuni significativi cambiamenti sulla collaborazione coordinata e continuativa.

Collaborazione coordinata e continuativa dopo la riforma

collaborazioni-coordinate-e-continuativeL’analisi che segue riguarda quelle tipologie di lavoro autonomo, sviluppatesi oltre misura negli ultimi quindici anni e che sono state interessate da provvedimenti di riforma, sia pure parziale, attraverso più interventi. Ora, il Decreto Legislativo di riordino dei contratti di lavoro e delle mansioni, approvato, in via definitiva, dal Consiglio dei Ministri il giorno 11 giugno 2015 ed in corso di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, interviene superando il contratto a progetto e prevedendo alcuni significativi cambiamenti sulla collaborazione coordinata e continuativa.

La riflessione che segue, pertanto, non potrà che soffermarsi su quanto detto dagli articoli 2, 51, 52, 53 e 54.

Art. 2: Collaborazioni organizzate dal committente

Già dal titolo della rubrica dell’articolo si capisce ove mira il Legislatore delegato: a partire dal 1° gennaio 2016 si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi ed ai luoghi di lavoro.

E’ stato adoperato il verbo “applicare”: ciò significa che rispetto alle collaborazioni che presentano quelle caratteristiche, pur se qualificate da un progetto, non c’è alcuna presunzione relativa da verificare (cosa che potrebbe portare a disquisizioni di natura giuridica e ad interpretazioni difformi), ma trova applicazione la normativa tipica del rapporto di lavoro subordinato, con tutti gli istituti normativi, retributivi e contributivi che da essa discendono: di conseguenza, appare chiaro comprendere quale sarà l’atteggiamento degli organi di vigilanza.

Ovviamente, la chiave di volta del comma 1, è rappresentata non tanto dalle caratteristiche della personalità e della continuità, sulle quali mi soffermerò quando parlerò dell’art. 409, n. 3, cpc che resta pienamente in vigore, quanto dal fatto (e ciò pare del tutto decisivo) che le modalità di esecuzione siano organizzate dal committente  anche per quel che concerne la tempistica ed il luogo di lavoro.

Quindi, non soltanto etero direzione ma etero organizzazione.

Obiettivo del Legislatore delegato appare quello di ricondurre nell’alveo della subordinazione tutte quelle collaborazioni, anche a progetto, che, per una serie di motivi, si sono sviluppate ai “confini della subordinazione” ed hanno attecchito, nel tempo, per un minor costo complessivo, per una maggiore flessibilità nella prestazione, e per un minor potere contrattuale del prestatore. Giustamente, se è il datore di lavoro a determinare i tempi ed il luogo di lavoro, la tutela normativa non può che essere quella del lavoro subordinato.

Una prima lettura del provvedimento, fatto salvo ciò che si dirà parlando dell’art. 409 cpc, porta ad una interpretazione della norma “stretta”: laddove vi è una organizzazione del lavoro, anche minima, secondo una tempistica fissata dallo stesso committente, si applica la normativa sul rapporto di lavoro subordinato: ovviamente, sarà, sempre, necessario distinguere la etero organizzazione da momenti di coordinamento in azienda, che sono tutt’altra cosa.

Cosa si potrebbe pensare per sfuggire alla stretta normativa sulla collaborazione coordinata e continuativa?

Probabilmente, negli schemi contrattuali venturi si porrà l’accento sul fatto che sarà lo stesso prestatore ad affermare che dipenderà soltanto dalla propria volontà fissare i tempi ed i momenti organizzativi anche sul luogo di lavoro: tutto questo, però, se salverà l’aspetto formale, non sarà decisivo nel momento in cui gli organi di vigilanza ed i giudici accertassero come, nella sostanza, le cose si siano realizzate in maniera ben diversa.

L’Esecutivo si preoccupa di salvare alcuni tipi di collaborazione coordinata e continuativa che sono riportate al comma 2 che sono:

  1. quelle per le quali gli accordi collettivi stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedano discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del settore. Qui, il pensiero corre al contratto collettivo dei lavoratori dei call-center, ma la disposizione non esclude altre forme di intervento in settori del tutto particolari. Il Legislatore delegato, riferendosi alle organizzazioni comparativamente più rappresentative ha parlato al singolare, usando (art. 51) la particella “da” al singolare, e non al plurale “dalle” come ha fatto altre volte;
  2. quelle prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali si rende necessaria l’iscrizione in albi professionali;
  3. quelle prestate dai componenti degli organi di amministrazione e di controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni;
  4. quelle rese, a fini istituzionali, in favore delle società sportive dilettantistiche e delle associazioni affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline associate e agli enti di promozione sportiva riconosciute dal CONI, come individuati e disciplinati ex art. 90 della legge n. 289/2002;

Il comma 2 offre alle parti una ulteriore strada per “uscire” dalla stretta normativa: possono chiedere ad una commissione di certificazione istituita ex art. 76 del D.L.vo n. 276/2003 una certificazione del rapporto dalla quale si evinca che non sussistano le condizioni impedienti previste al comma 1. Nella attività di certificazione il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante sindacale, da un avvocato o da un consulente del lavoro.

La disposizione merita alcuni approfondimenti.

Essa appare, nello specifico, superflua, in quanto ripetitiva del principio generale contenuto nell’art. 75 del D.L.vo n. 276/2003, secondo il quale “le parti possono ottenere la certificazione dei contratti (e, quindi anche della collaborazione che è una tipologia contrattuale) in cui sia dedotta, direttamente o indirettamente, una prestazione di lavoro”.

collaborazioni-coordinate-e-continuativeL’attività di certificazione si basa su un iter istruttorio che vede coinvolti, a vario titolo, una serie di organi pubblici (Direzione territoriale del Lavoro, INPS, INAIL, Agenzia delle Entrate, ecc.) i quali possono esprimere le loro posizioni quandanche l’attività certificativa sia svolta da Università o dall’ordine provinciale dei consulenti del Lavoro. Ovviamente, la commissione  trae le proprie convinzioni anche dalle dichiarazioni delle parti e giunge alla decisione (con l’atto di certificazione o con quello di reiezione) sulla base di un autonomo convincimento.

Per quel che concerne, invece, l’assistenza del lavoratore, il Legislatore delegato ripete, pressoché pedissequamente, la frase relativa alla assistenza del lavoratore già adoperata nell’art. 7, comma 5, della legge n. 604/1966, come riformato dall’art. 1, comma 40, della legge n. 92/2012, in materia di tentativo obbligatorio di conciliazione nella procedura relativa al licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Da ciò si deduce che quando si parla ai fini dell’assistenza di “consulente del lavoro”, essa può essere esercitata soltanto dallo stesso e non dal professionista abilitato alla professione ex lege n. 12/1979: così si espresse, allora, il Ministero del Lavoro con la circolare n. 3/2013 che suscitò parecchie critiche da parte dell’Ordine dei Dottori e Ragionieri Commercialisti.

La certificazione è opponibile nei confronti di qualunque terzo, è sottoposta, prima dell’impugnativa giudiziale, al tentativo obbligatorio di conciliazione presso l’organismo che l’ha rilasciata, e conserva i propri effetti fino alla emanazione di una sentenza di primo grado che ne annulli gli effetti.

L’art. 2 termina con un ultimo comma, il 3, ove si ricorda che la riconduzione alla disciplina del rapporto di lavoro subordinato non trova applicazione nelle Pubbliche Amministrazioni (art. 1, comma 2, del D.L.vo n. 165/2001) fino al riordino dei contratti di lavoro flessibili del settore pubblico e, in ogni caso, a partire dal 1° gennaio 2017, è fatto divieto, a tutti i datori di lavoro pubblici, di stipulare contratti di collaborazione.

C’è una domanda alla quale è necessario rispondere, attesa l’abrogazione, operata dall’art. 52, degli articoli da 61 a 69 – bis del D.L.vo n. 276/2003: cosa ha voluto “tagliare” il Legislatore delegato?

La risposta è abbastanza semplice: si sono volute riportare nell’alveo della subordinazione una serie di collaborazioni, anche a progetto, nelle quali risulta fortemente condizionante la etero direzione ed organizzazione da parte del committente, rispetto alle quali gli orientamenti della magistratura sono stati nel decennio trascorso, pressoché unanimi.

Art. 52: Superamento del contratto a progetto

I contenuti di questo articolo vanno attentamente soppesati.

Vi si afferma che gli articoli da 61 a 69 –bis del D.L.vo n. 276/2003 vengono abrogati e restano in vigore unicamente per disciplinare i contratti in corso alla data di entrata in vigore del provvedimento.

In un primo momento era previsto anche un comma 2, “sparito” nella versione definitiva, ove si affermava che “resta salvo quanto disposto dall’art. 409 cpc”.

I contratti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, non possono essere più instaurati, ma anche quelli che, per la loro tenuità, brevità o particolarità (ad esempio, le co.co.co. fino a 30 giorni  con un importo fino a 5.000 euro, o quelle rese nell’ambito dei servizi di cura e assistenza alla persona, per un massimo di 240 ore annue, o le collaborazioni con i pensionati di vecchiaia) erano stati “esentati” dalla redazione di un progetto e che erano richiamati specificatamente dalle disposizioni abrogate. Allo stesso tempo vengono meno i requisiti specifici introdotti con l’art. 69 – bis dalla legge n. 92/2012 per la genuinità delle c.d. “partite IVA” (collaborazione con lo stesso committente per 8 mesi per 2 anni consecutivi, corrispettivo derivante dalle collaborazioni, riconducibile allo stesso centro di imputazione di interessi, pur se in favore di soggetti diversi, superiore all’80% nell’arco di due anni solari consecutivi, postazione fissa presso una delle sedi del committente) fatte salve le ipotesi di conoscenze teorico – tecniche di grado elevato o valore reddituale complessivo superiore ad una determinata soglia ( art. 69 – bis, comma 2, lettera b) o prestazioni professionali per le quali viene richiesta l’iscrizione in albi o registri professionali, individuati dal D.M. 20 dicembre 2012 (comma 3).

Quanto appena detto merita qualche fugace riflessione.

La cancellazione degli articoli da 61 a 69 –bis fa venir meno anche tutta una serie di diritti “minimi” strettamente correlati alle collaborazioni a progetto (v., ad esempio, l’art. 66).

Per quanto concerne i titolari di partita IVA, essendo venuti meno i requisiti generali cui si faceva cenno poco fa (tra l’altro, la riconduzione del rapporto a tempo indeterminato era, mediata dalla eventuale presenza di un progetto che trasformava il rapporto in collaborazione coordinata e continuativa, con gli oneri contributivi per 2/3 a carico del committente), la prestazione verrà ritenuta come subordinata in presenza delle prove tradizionali che concernono la mancanza di autonomia, l’assoggettamento al potere direttivo e disciplinare dell’imprenditore, l’uso dei mezzi di lavoro del datore, l’inserimento stabile all’interno di un processo produttivo, così come avviene, nel settore edile, a seguito di precisi chiarimenti del Ministero del Lavoro, finalizzati a combattere il fenomeno delle false partite IVA e dei falsi artigiani. In ogni caso l’abrogazione dell’art. 69-bis potrebbe portare alla instaurazione più libera di contratti di lavoro autonomo.

La seconda questione concerne i contatti a progetto in corso e ciò che si intende fare, visto il regime che si applicherà a partire dal 1° gennaio 2016.  Per quelli che rispondono, in pieno, ai criteri fissati dagli articoli 1 e seguenti del D.L.vo n. 276/2003 e che non sono caratterizzati da etero direzione ed etero organizzazione, non c’è problema: possono, tranquillamente, superare la data fatidica, se le parti non procedono ad una risoluzione consensuale, e continuare fino alla realizzazione del progetto. Per gli altri, per i quali c’è più di un dubbio legato alla sussistenza dei requisiti, il Legislatore delegato offre la possibilità di una “sanatoria stabilizzante” abbastanza favorevole (ferma restando l’opportunità della instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato, con le agevolazioni previste dalla legge finanziaria, già nel corso del 2015).

Ma, detto, questo, quali tipi di collaborazione coordinata e continuativa potranno, legittimamente, essere stipulate?

L’art.. 409 cpc,  pur  “espunto” dall’art. 52, è una disposizione presente nel nostro ordinamento è, “in primis”, una norma di diritto processuale in quanto individua la competenza del giudice del lavoro per la cognizione di una serie di rapporti. Esso afferma che oltre ai rapporti di agenzia e di rappresentanza commerciale rientrano nella giurisdizione di quest’ultimo “altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”. A tutto questo va aggiunta la piena permanenza nell’ordinamento dell’art. 2222 c.c. .

A mio avviso, sono finiti i contratti di collaborazione a progetto e ciò che ad essi è strettamente correlato con le norme successive all’art. 61 del D.L.vo n. 276/2003, ma restano possibili una pluralità di rapporti ove non c’è una aperta qualificazione degli stessi (Cass. n. 413/1999; Cass., n. 7625/1996; Cass., n. 6194/1990) ma solo l’esistenza di alcuni requisiti che riportano alla c.d. “parasubordinazione”, espressione non tipica, ma eterogenea, in virtù dello svolgimento di una prestazione continuativa, coordinata e prevalentemente personale i cui benefici si riverberano su un imprenditore ma che, alla luce della previsione contenuta nel comma 2 dell’art. 1, debbono essere caratterizzati da etero direzione ed etero organizzazione.

Ma quando si può parlare di continuità della prestazione?

Anche qui soccorre la Suprema Corte (Cass. n. 9067/1990, Cass. n. 6298/1988) quando afferma che la prestazione non deve essere occasionale od istantanea, ma si deve protrarre in un arco temporale abbastanza lungo, implicante una reiterazione delle prestazioni ed un impegno costante a favore del committente (Cass., n. 5698/2002, Cass., 3485/2001). La continuità può risultare anche dalla ripetitività delle prestazioni, senza che essa debba, necessariamente, essere stabilita nel contratto. La non occasionalità sta a significare “non limitazione” ad una opera specifica e determinata ma a prestazioni che si svolgono lungo un determinato periodo, non essendo intesa in senso meramente cronologico, cosa che comporta un certo numero di prestazioni professionali in un determinato periodo di tempo (Cass., n. 5811/1984). La continuità può realizzarsi anche attraverso prestazioni istantanee funzionalmente correlate e destinate a soddisfare un interesse duraturo del committente (Cass., n. 2906/1976).

Alla luce del concetto appena espresso si può formulare una considerazione che riguarda, ad esempio, le c.d. “mini co.co.co.”e  le collaborazioni dei pensionati di vecchiaia. Ebbene, quelle che presentano la caratteristica della continuità e, soprattutto, non sono “etero dirette” ed “etero organizzate”, sono pienamente ammissibili .

Ma cosa significa coordinazione?

Anche qui è la Corte di Cassazione a dettare alcuni indirizzi.

Essa postula che l’attività sia strutturalmente e funzionalmente collegata alla organizzazione produttiva del committente (Cass., n. 3698/2002; Cass., n. 3485/2001; Cass., n. 9087/1990) e che le direttive imprenditoriali circa le prestazioni da svolgere vanno eseguite, pur essendo le stesse svolte sì in maniera coordinata, ma del tutto autonoma, con il potere del committente che è limitato a chiedere la prestazione dovuta, mancando il potere di determinazione unilaterale delle modalità di esecuzione della stessa, con una differenza di ordine qualitativo e non quantitativo tra il potere tipico del lavoro subordinato e quello di coordinamento del committente.

C’è, poi, il requisito della  personalità rispetto al quale si può sostenere che:

  1. esso deve essere prevalente rispetto agli altri fattori impiegati ai fini della realizzazione dell’obbligazione contrattuale, ma anche rispetto alla struttura della quale si avvale per raggiungere il risultato: struttura che non assume la veste di una organizzazione imprenditoriale, cosa che porterebbe a configurare un contratto di appalto con le caratteristiche individuate dall’art. 29 del D.L.vo n. 276/2003;
  2. esso si evince (e, quindi, ricade nell’ambito della para-subordinazione) anche in una molteplicità di incarichi espletati con l’impiego prevalente di attività personale non subordinata (Cass., n. 12681/2003);
  3. esso non può essere escluso nelle attività professionali che richiedono la collaborazione di personale dipendente (Cass., n. 1112/1987).

Art. 53: Stabilizzazione dei collaboratori coordinati e continuativi anche a progetto e di persone titolari di partita IVA

Il testo è  stato oggetto tra la prima e la seconda approvazione del Consiglio dei Ministri di alcune modifiche che hanno tenuto conto delle perplessità espresse dalla Ragioneria Generale dello Stato in  sede di “bollinatura”.

Il comma 1 afferma che tutti i datori di lavoro privati, a partire dal 1° gennaio 2016 (il 20 febbraio, in sede di prima approvazione,  il periodo per la stabilizzazione era compreso tra la data di entrata in vigore del Decreto Legislativo di riordino dei contratti ed il 31 dicembre 2015) potranno assumere con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato prestatori con i quali abbiano rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, o persone titolari di partite IVA a condizione che:

  1. i lavoratori interessati alle assunzioni sottoscrivano avanti alla commissione provinciale di conciliazione o in sede sindacale (articoli 410 e 411 cpc) o presso una sede di certificazione (art. 76 del D.L.vo n. 276/2003), un atto di conciliazione finalizzato a risolvere eventuali controversie di natura economica concernenti il pregresso rapporto di lavoro e relativa qualificazione. Non si tratta di una modalità nuova nel nostro ordinamento, atteso che, in passato, fu utilizzata per le stabilizzazioni delle collaborazioni attraverso la legge n. 296/2006 o per le associazioni in partecipazione con apporto di lavoro, secondo la previsione contenuta nell’art. 7 – bis della legge n. 99/2013;
  2. i datori di lavoro si impegnino, nei dodici mesi successivi alle assunzioni, a non risolvere i rapporti instaurati, se non per giusta causa o giustificato motivo soggettivo: anche in queste ipotesi si tratta di previsioni già contenute (sia pure in un caso in termini leggermente diversi) nelle disposizioni legali citate al precedente punto a). E’ appena il caso di sottolineare come, in caso di recesso, trovi, “in toto”, applicazione il D.L.vo n. 23/2015.

Il vantaggio che i datori di lavoro trarranno dalla stabilizzazione (comma 2) appare notevole: senza pagamento di alcun contributo aggiuntivo a mo’ di sanatoria (come fu, invece, richiesto – ma la somma era abbastanza simbolica – in occasione della sanatoria per gli associati in partecipazione), con l’assunzione a tempo indeterminato vengono “cancellati” gli illeciti amministrativi, contributivi (che comprendono sia quelli previdenziali che quelli assicurativi) e fiscali connessi ad una eventuale erronea qualificazione del rapporto di lavoro, a meno che gli stessi siano stati già accertati a seguito di ispezioni effettuate in data antecedente l’assunzione dagli organi di vigilanza del Ministero del Lavoro, degli Istituti, della Guardia di Finanza o dell’Agenzia delle Entrate.

Una breve considerazione si rende necessaria.

La fissazione della stabilizzazione a partire dal 1° gennaio 2016 quando, dalla stessa data, trovano applicazione le norme sul lavoro subordinato, e non ad un periodo antecedente, come previsto nella prima stesura del provvedimento, se da un lato è la diretta conseguenza di un problema di mancata copertura finanziaria, dall’altro non consente ai datori di lavoro di usufruire dei vantaggi economici derivanti dall’esonero contributivo disciplinato dall’art. 1, comma 118, della legge n. 190/2014 (attualmente, limitati alle assunzioni effettuate entro il 31 dicembre 2015), in sommatoria con “lo stop” alle sanzioni. Tutto questo, però, non significa che i datori di lavoro non possano stabilizzare nel corso del 2015 i soggetti titolari di partita IVA o i collaboratori (ma anche gli associati in partecipazione) che negli ultimi sei mesi non hanno avuto un rapporto a tempo indeterminato (requisito richiesto dal comma 118), “godendo” delle agevolazioni sopra indicate: resta, indubbiamente, il rischio che, nei limiti della prescrizione quinquennale, gli organi di vigilanza possano, con prove, ricondurre il precedente rapporto nell’alveo della subordinazione, con i conseguenti effetti sanzionatori e di recupero contributivo ma, anche, con l’annullamento delle agevolazioni ottenute, in quanto si evidenzierebbe la carenza del requisito dell’inesistenza di un rapporto a tempo indeterminato nel semestre antecedente.

Una strada che si potrebbe percorrere, finalizzata a togliere qualche preoccupazione circa la qualificazione del precedente rapporto (ovviamente, non sempre praticabile per le qualità intrinseche del contratto di collaborazione a progetto in essere), potrebbe essere quella suggerita dall’art. 79, comma 2, del D.L.vo n. 276/2003 che tratta della efficacia giuridica della certificazione. Vi si afferma che “gli effetti dell’accertamento dell’organo preposto alla certificazione, nel caso di contratti in corso di esecuzione, si producono al momento di inizio del contratto, ove la commissione (istituita presso la DTL, le Università e le Fondazioni autorizzate, gli ordini provinciali dei consulenti del lavoro, ecc.) abbia appurato che l’attuazione del medesimo è stata anche nel periodo precedente alla propria attività istruttoria, coerente con quanto appurato in tale sede”.

Quanto appena detto sta a significare che qualora con un contratto di collaborazione coordinata e continuativa in corso, la commissione si convinca che anche, in passato, il rapporto si è svolto con le medesime modalità, l’atto certificatorio espleta i propri effetti anche per il periodo antecedente e i gli effetti permangono anche verso i terzi sino al momento in cui, con sentenza di merito, sia stato accolto uno dei ricorsi giurisdizionali esperibili (art. 79, comma 1). Da ciò la diretta conseguenza sarebbe che, nel caso in cui la collaborazione stessa giunga a conclusione nel corso del 2015, il datore di lavoro potrebbe, con poche preoccupazioni rispetto alla qualificazione del precedente rapporto, procedere ad una assunzione a tempo indeterminato.

Art. 54: Superamento dell’associazione in partecipazione con apporto di lavoro

L’associazione in partecipazione con apporto di lavoro era già stata vista con estremo sfavore dal Legislatore degli ultimi anni: basti pensare alle disposizioni limitatrici contenute nella legge n. 92/2012 a cui seguirono, peraltro, opportunità di riconduzione a rapporto di lavoro subordinato particolarmente invitanti sotto l’aspetto dei costi (v. art. 7-bis della legge n. 99/2013) le quali, però, tranne un caso fortemente conosciuto a livello nazionale, non portarono a grossi risultati.

Ora, la previsione contenuta nell’art. 53 è particolarmente chiara: a partire dalla data di entrata in vigore della riforma non potranno più essere stipulati contratti di associazione con apporto di lavoro o misto: infatti, il nuovo art. 2549 c.c., prevede espressamente che “con il contratto di associazione in partecipazione l’associante attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso un corrispettivo di un determinato apporto di capitale” e che “nel caso in cui l’associato sia una persona fisica l’apporto non può consistere, nemmeno in parte, in una prestazione di lavoro”. A tutto questo va aggiunta l’abrogazione del successivo comma 3.

I contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro stipulati in data antecedente l’entrata in vigore del Decreto Legislativo, sono fatti salvi fino alla loro conclusione ma, in caso di controlli da parte degli organi di vigilanza, potranno essere ricondotti nell’alveo della subordinazione, qualora carenti degli elementi tipici previsti dal codice civile.

L’associazione in partecipazione tra imprese è fatta salva: ciò significa, ad esempio, che continua ad essere perfettamente legittima quella, abbastanza comune, tra una compagnia petrolifera ed una società che gestisce l’impianto di erogazione, essendo del tutto ininfluenti le tipologie contrattuali esistenti tra quest’ultima ed i propri dipendenti.

 

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Eufranio Massi
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E' stato per 40 anni dipendente del Ministero del Lavoro. Ha diretto, in qualità di Dirigente, le strutture di Parma, Latina, i Servizi Ispettivi centrali, Modena, Verona, Padova e Piacenza. Collabora, da sempre, con riviste specializzate e siti web sul tema lavoro tra cui Generazione vincente blog.

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