La nuova disciplina delle mansioni dopo la modifica dell’art. 2103 c.c. [E.Massi]

Eufranio_MassiFino ad oggi, parlare di mutamento delle mansioni nell’ambito dell’impresa e’ stato, sovente, foriero di problemi, attesa la forte rigidità rappresentata dall’art. 2103 c.c. che, secondo alcune interpretazioni giurisprudenziali, non consentiva neanche forme di flessibilità concordate con le organizzazioni sindacali sulla base del principio della “job rotation”.

Il Decreto Legislativo, attuativo della legge n. 183/2014, approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri l’11 giugno 2015 e di imminente pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, ha riscritto la norma. Dopo aver riaffermato un principio generale sul quale mi soffermerò tra poco, stabilisce una serie di ipotesi nelle quali è possibile demansionare il lavoratore.

Prima di entrare nel merito delle novità introdotte credo sia necessario focalizzare alcuni casi specifici e speciali in cui il demansionamento è consentito nel rispetto di alcune condizioni:

  1. l’art. 4, comma 11, della legge n. 223/1991: con questa disposizione si è all’interno della procedura collettiva di riduzione di personale e la previsione è destinata a trovare soluzioni alternative al licenziamento. Con accordo sindacale si possono assegnare lavoratori a mansioni diverse da quelle in precedenza svolte. In passato, parte della giurisprudenza di merito ha ritenuto che il demansionamento, con riduzione della retribuzione, fosse possibile soltanto all’interno della categoria (impiegati, operai, intermedi) in quanto la legge n, 223/1991 contiene una deroga esplicita al solo art. 2103 c.c. e non all’art. 2095 c.c., tesi non seguita dalla Cassazione (Cass., n. 9386/1993) la quale ha ritenuto pienamente legittima l’adibizione dei lavoratori anche a mansioni appartenenti ad altra categoria professionale;
  2. l’art. 4, comma 4, della legge n. 68/1999: si tratta della previsione che impedisce il licenziamento del lavoratore divenuto disabile nel corso del rapporto di lavoro, purchè lo stesso possa essere utilizzato in mansioni equivalenti o, in mancanza, inferiori, con conservazione del più favorevole trattamento economico corrispondente alle mansioni di provenienza. Tale disposizione va integrata anche con la previsione contenuta al comma 7 dell’art. 1, laddove si afferma che i datori di lavoro pubblici e privati debbono garantire la conservazione del posto ai soggetti che non erano disabili al momento dell’assunzione, ma che lo sono divenuti a seguito di infortunio sul lavoro o malattia professionale;
  3. l’art. 10, comma 3, della legge n. 68/1999: il lavoratore disabile che si è aggravato nel corso del rapporto di lavoro è soggetto ad accertamenti sanitari attraverso le strutture pubbliche, sia su propria richiesta che del datore di lavoro: essi devono tendere ad accertare se, nonostante le minorazioni, è possibile la continuazione del rapporto. Il datore di lavoro, attuando, se necessario, adattamenti nella organizzazione del lavoro, deve uniformare il proprio comportamento al mantenimento del posto di lavoro, attraverso anche un demansionamento, con la conservazione della retribuzione: soltanto se tutto questo non è possibile si può procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro;
  4. l’art. 42, comma 1, del D.L.vo n. 81/2008: il datore di lavoro, in relazione ai giudizi formulati dal medico competente ex art. 41, comma 6 (inidoneità totale o parziale alle mansioni), attua le misure indicate dallo stesso e qualora prevedano una inidoneità alla mansione specifica deve adibire il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento economico corrispondente alle mansioni di provenienza;
  5. l’art. 15 del D.L.vo n. 66/2003: si tratta delle disposizione che trova attuazione allorquando sopraggiungano condizioni di salute che comportino l’inidoneità alla prestazione di lavoro notturno, accertata dal medico competente o dalle strutture sanitarie pubbliche. Il lavoratore deve essere assegnato al lavoro diurno, in altre mansioni equivalenti, se esistenti e disponibili, con rinvio alla contrattazione collettiva della definizione delle modalità di applicazione e della individuazione delle soluzioni nelle quali non risulti applicabile l’assegnazione sopra citata.

Fatta questa breve premessa andiamo a verificare come è stato riformulato l’art. 2103 c.c., cosa avvenuta attraverso l’art. 3 del Decreto Legislativo.

Dopo aver stabilito, in via generale, che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle acquisite attraverso lo sviluppo del proprio iter professionale, il Legislatore delegato (comma 1) dispone che lo stesso possa essere adibito a mansioni di pari livello all’interno della categoria di appartenenza, corrispondenti alle ultime effettivamente svolte: rispetto al passato è scomparso qualsiasi riferimento alla “equivalenza delle mansioni”, con la conseguente affermazione della utilizzazione “trasversale” del prestatore con l’unico limite rappresentato dall’inquadramento nella categoria.

Con il comma 2, mutuando principi già espressi in giurisprudenza, viene stabilito che, in presenza di variazione degli assetti organizzativi aziendali che incidano sulla posizione del lavoratore, è possibile assegnare lo stesso a mansioni riferite al livello di inquadramento inferiore, purchè si resti nella stessa categoria di inquadramento.

Quanto appena detto, merita, a mio avviso, qualche riflessione.

La prima è rappresentata dalla constatazione che la variazione degli assetti produttivi aziendali rientra tra i poteri organizzativi dell’imprenditore, non necessariamente “mediati” da alcuna trattativa sindacale e che la stessa deve incidere direttamente sulla posizione lavorativa del soggetto interessato come, nel caso, ad esempio, della soppressione del posto di lavoro a seguito della introduzione di procedure di razionalizzazione o di esternalizzazione di parte dell’attività.

La seconda riflessione concerne il limite dello “ius variandi in peius”: un solo livello all’interno della categoria di inquadramento, senza alcuna possibilità, ad esempio, di retrocedere il lavoratore da una posizione impiegatizia ad una di operaio.

La terza riguarda l’esercizio di tale demansionamento: la norma sembra farlo rientrare nel mero potere discrezionale del datore di lavoro.

La quarta sottolineatura è rinvenibile nel comma 3: il mutamento delle mansioni deve essere accompagnato, ove necessario (valutazione che deve fare l’imprenditore), da un percorso di aggiornamento formativo che, ovviamente, è strettamente correlato alle nuove mansioni da svolgere la cui mancanza, peraltro, non inficia la validità dell’assegnazione.

L’assegnazione alla nuova attività (comma 5), principio valido per ogni mutamento di mansioni, deve avvenire, a pena di nullità, per iscritto, con  l’aggiunta delle motivazioni (cosa opportuna, pur nel silenzio della norma): nella lettera va precisato che con il declassamento al livello inferiore il lavoratore mantiene il livello di inquadramento ed il trattamento retributivo in godimento, con  la sola perdita delle indennità e degli elementi retributivi strettamente correlati alle modalità di svolgimento della precedente mansione lavorativa (come, ad esempio, l’indennità di cassa o quella di rischio).

mansioniOltre alla ipotesi del mutamento degli assetti organizzativi interni alle quali ho fatto cenno, il Legislatore delegato, con gli stessi limiti e condizioni sopra evidenziati, afferma (comma 4) che ulteriori ipotesi sono demandate alla contrattazione collettiva.  Non c’è alcun specifico riferimento al livello per cui si può sostenere che gli accordi possano essere stipulati anche a livello aziendale: tutto questo lo si evince dall’art. 51 del Decreto Legislativo il quale dispone che “salvo diversa previsione, ai fini del presente decreto, per contratti collettivi si intendono, i contratti collettivi  nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle rappresentanza sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria”: è appena il caso di precisare che, ai fini della validità di questi ultimi, valgono, nel settore industriale, per le aziende associate, le regole fissate dall’accordo interconfederale tra Confindustria e CGIL, CISL e UIL.

Ma è, soprattutto, al comma 6 che il Legislatore delegato introduce le maggiori novità: le parti possono sottoscrivere un accordo di modifica delle mansioni, della categoria, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Tutto questo deve avvenire in una “sede protetta” come la commissione provinciale di conciliazione istituita presso la Direzione territoriale del lavoro (art. 410 cpc), in sede sindacale (art. 411 cpc) o le sedi di certificazione (Università e fondazioni autorizzate, commissioni presso gli ordini dei consulenti del lavoro, Enti bilaterali, ecc.) previste dall’art. 76 del D.L.vo n. 276/2003. Il lavoratore, conclude la norma, può farsi assistere dal rappresentante di una associazione sindacale alla quale aderisce o conferisce mandato, da un avvocato o da un consulente del lavoro.

Anche in questo caso si rendono, a mio avviso, necessarie alcune delucidazioni.

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Eufranio Massi
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E' stato per 40 anni dipendente del Ministero del Lavoro. Ha diretto, in qualità di Dirigente, le strutture di Parma, Latina, i Servizi Ispettivi centrali, Modena, Verona, Padova e Piacenza. Collabora, da sempre, con riviste specializzate e siti web sul tema lavoro tra cui Generazione vincente blog.

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