Il Limite percentuale per l’instaurazione di contratti a termine

editoriale di Eufranio MassiLa conversione in legge del D.L. n. 34/2014 di cui è imminente la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, offre l’occasione per riflettere su uno dei punti più qualificanti: quello del limite percentuale di contratti  stipulabili che il Legislatore, con alcune eccezioni, stabilisce nel 20%.
E’ questo uno degli elementi fortemente innovativi che caratterizza la nuova disciplina dei contratti a tempo determinato pur se, è inutile negarlo, quella che rappresenta una sorta di “rivoluzione planetaria” è la fine delle ragioni giustificatrici e la piena agibilità, in ogni ipotesi, del contratto “acausale”.

Prima di andare nel merito delle singole questioni interpretative credo che non si possa fare a meno di partire dal testo normativo “Fatto salvo quanto disposto dall’art. 10, comma 7, il numero complessivo di contratti a tempo determinato stipulati da ciascun datore di lavoro ai sensi del presente articolo non può eccedere il limite del 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione. Per i datori di lavoro che occupano fino a cinque dipendenti è sempre possibile stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato”. Questa è la frase fondamentale di riferimento dalla quale non si può prescindere ma che, tuttavia, fa salvi (art. 2 –bis) i limiti previsti (maggiori o minori) dal CCNL di riferimento e che consente ai datori di lavoro con un organico dimensionato oltre la percentuale legale di rientrare nei limiti entro il prossimo 31 dicembre a meno che un contratto collettivo applicabile nell’azienda non disponga un limite percentuale o un termine più favorevole. Tutto questo comporta l’impossibilità per le imprese “renitenti” di stipulare nuovi contratti a tempo determinato fino a quando non sono rientrate nell’aliquota.

La prima considerazione che balza agli occhi è rappresentata dal fatto che, nella maggior parte dei casi, le imprese continueranno ad applicare l’aliquota contrattuale che, se si eccettua il CCNL dei bancari e quello dei metalmeccanici che non ne fanno cenno, è presente nella maggior parte delle pattuizioni collettive più importanti, andando da un 7% nel settore del lavoro elettrico al 35% in quello dell’autotrasporto, con, talora, una sommatoria di ipotesi indistinta tra contratti di lavoro a tempo determinato e contratti di somministrazione, e, talaltra, una dimensione aziendale diversa ove il riferimento contrattuale è all’unità produttiva (ad esempio, il contratto del terziario) e non all’azienda nel suo complesso.

Tornando al testo normativo non si può che sottolineare come il Legislatore abbia individuato il momento ed il modo nel quale va calcolata la percentuale del personale in forza nell’anno di riferimento. Esso è il 1° gennaio dell’anno al quale si riferisce l’assunzione ed il computo va effettuato soltanto sul personale in forza a tempo indeterminato. Ciò significa che la “fotografia” non tiene assolutamente conto di altro personale, a vario titolo, in organico, come i lavoratori a termine, quelli accessori, quelli con contratto di lavoro intermittente a tempo determinato o quelli che sono titolari di rapporti di natura autonoma. L’aver scelto, quale riferimento la data del 1° gennaio, indubbiamente favorisce la contabilità, soprattutto se rapportata ad altri criteri presenti nella contrattazione collettiva che fanno riferimento alla media semestrale od annuale. Tuttavia, la scelta adottata dal Legislatore presenta alcune criticità che possono così evidenziarsi:

a)      se un’azienda nasce in corso d’anno, in quale momento si quantifica il personale, atteso che al momento della costituzione potrebbero esserci pochi dipendenti a tempo indeterminato o forse anche nessuno?

b)      se un’azienda, durante l’anno incorpora un’altra impresa fondendosi o costituendo un nuovo soggetto giuridico, quale è la soluzione da adottare ai fini del limite percentuale?

c)      se, durante l’anno, a seguito di acquisizione, anche in virtù di una norma contrattuale, del personale già in forza presso un altro datore di lavoro a seguito di cambio di appalto o, comunque, di successione nel contratto, si resta ancorati all’organico fissato al 1° gennaio pur se lo stesso è notevolmente aumentato in corso d’anno? E se ciò determina un aumento dell’organico tale da far scattare l’aliquota anche per il collocamento dei disabili, si può procedere, previa convenzione con il servizio competente (art. 11 della legge n. 68/1999)  ad una assunzione a termine di lavoratori con handicap senza che questa vada ad intaccare la percentuale del 20%?

d)      se a seguito di acquisizione di personale per cambio di appalto, si assumono dall’azienda cedente lavoratori a tempo determinato e ciò provoca il superamento della percentuale legale, cosa succede?

e)      se un’azienda, per effetto di dimissioni, risoluzioni consensuali, cessione di ramo d’azienda, perdite di appalti, vede ridotto di gran lunga, in corso d’anno, il proprio organico rispetto a quello “fotografato” al 1° gennaio, deve considerare la percentuale dei rapporti a termine sempre correlata al numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza a tale data?

A molte di queste domande si sarebbe potuto, agevolmente, fornire delle risposte esaurienti sol che si fosse adottato il metodo della rilevazione del personale al momento dell’assunzione, essendo ben mutevole, per vicende connesse alla vita aziendale, il numero dei dipendenti. Altre domande, invece,  potranno essere soddisfatte con chiarimenti espressi in via amministrativa dallo stesso Ministero del Lavoro come, ad esempio, relativamente al numero percentuale delle imprese nate da una fusione od una incorporazione (si potrebbe ben sostenere che per le stesse vale il momento della “nascita” pur se avvenuta in corso d’anno), o al contratto a termine con i disabili (si può affermare che lo stesso è fuori dall’aliquota legale o contrattuale trattandosi di adempimento di un obbligo di legge), mentre ad altri quesiti, a meno che non si voglia andare “oltre i confini segnati dalla legge”, non si potrà rispondere, fatta salva una diversa disposizione legale successiva. Certo se si fosse, ad esempio, normativamente adottato lo stesso criterio in uso nella legge n. 68/1999 (art. 9, comma 1) che considera la variazione dell’aliquota in aumento anche in corso d’anno ai fini della richiesta di avviamento e la si fosse riferita anche alla percentuale dei  lavoratori da assumere con contratto a tempo determinato, ci sarebbe stata qualche questione in meno da risolvere.

Si pone, ora, il problema della computabilità dei dipendenti a tempo indeterminato: sembra una cosa semplice (ed in effetti lo è) ma occorre, a mio avviso, tenere presenti alcune disposizioni che sembrano restringere la base di calcolo (a meno di interpretazioni amministrative “espansive” che non sembrano, tuttavia, trovare un supporto normativo), atteso che non vanno compresi quei lavoratori per i quali la norma non ne prevede il conto ai fini dell’applicazione di istituti contrattuali o legali o prevede una contabilità parziale:

a)         gli apprendisti, per tutta la durata della fase formativa, ivi compresi quelli (pochissimi) assunti dalle liste di mobilità, atteso quanto affermato dall’art. 7, comma 3, del D.L.vo n. 167/2011;

b)         gli assunti con contratto di reinserimento ex art. 20 della legge n. 223/1991 (anche questi sono pochissimi se rapportati agli anni di vigenza della norma);

c)         i lavoratori provenienti da esperienze di lavori socialmente utili o di pubblica utilità, così come previsto dall’art. 7, comma 7, del D.L.vo n. 81/2000 (anche di questi, se si eccettuano alcune limitatissimi casi), non sembrano essercene, presso i datori di lavoro privati, un gran numero;

d)         i lavoratori somministrati, perché dipendenti dall’Agenzia di lavoro.

I lavoratori a tempo parziale sono calcolati “pro-quota” rispetto all’orario contrattuale pieno, così come previsto dall’art. 6 del D.L.vo n. 61/2000, mentre per quelli intermittenti a tempo indeterminato le prestazioni lavorative vanno rilevate con riferimento al semestre precedente, secondo quanto afferma l’art. 39 del D.L.vo n. 276/2003.

Va, peraltro, ricordato ciò che si evince dal comma 7 dell’art. 10 del D.L.vo n. 368/2001, nel senso che alcuni contratti a tempo determinato non rientrano nei limiti del contingentamento. Essi sono:

a)         quelli stipulati nella fase di avvio di nuove attività per i periodi definiti dai contratti collettivi nazionali di lavoro anche in misura non uniforme con riferimento sia ad aree geografiche che a comparti merceologici. Qui, non essendo rilevabile una disposizione di carattere comune, i datori di lavoro interessati debbono, necessariamente, riferirsi al CCNL applicato e verificare ciò che, eventualmente, lo stesso ha disciplinato;

b)         quelli per ragioni di carattere sostitutivo (malattia, maternità, infortunio, ferie, anche a scorrimento) o di stagionalità (DPR n. 1525/1963 o attività definite come tali dalla contrattazione collettiva, cosa che, in alcuni settori, ha portato a definizioni molto ampie);

c)         quelli per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi;

d)         quelli con lavoratori di età superiore ai 55 anni (che, forse, il Legislatore avrebbe potuto abbassare a 50, viste le disposizioni incentivanti anche in materia di contratti a termine previste dall’art. 4, commi 8 e 9 della legge n. 92/2012).

Detto questo, per completezza di informazione ricordo che non rientrano nella percentuale del 20% perché non disciplinati dal D.L.vo n. 368/2001 (fatti salvi, per talune tipologie, gli articoli 6 ed 8) i contratti a termine  stipulati con:

a)         i lavoratori in mobilità ex art. 8, comma 2, della legge n. 223/1991, secondo quanto affermato dall’art. 10, comma 1, lettera c – ter del predetto decreto legislativo. Ad essi non sono, minimamente, applicabili taluni elementi specifici come il periodo di intervallo  tra un contratto e l’altro, il diritto di precedenza (tranne che ciò non risulti dalla contrattazione collettiva od individuale), il numero “contingentato” delle proroghe, la sommatoria dei 36 mesi;

b)         i richiamati in servizio appartenenti al servizio volontario del Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco, secondo la previsione dell’art. 10, comma 1, lettera c-bis. La piena legittimità della disposizione è stata riconosciuta, recentemente, da una sentenza della Corte Costituzionale;

c)         i lavoratori con contratto di somministrazione di lavoro (art. 10, comma 1, lettera c);

d)         gli operai a tempo determinato nel settore agricolo, secondo la definizione fornita dall’art. 12, comma 2, del D.L.vo n. 375/1993 (art. 10, comma 2). L’estrapolazione trova una specifica giustificazione nel fatto che la regola che disciplina tale tipologia né rappresentata da prestazioni di natura giornaliera;

e)         i prestatori con contratti di durata non superiore a tre giorni per l’esecuzione di servizi speciali, nei settori del turismo e dei pubblici esercizi (art. 10, comma 3). Si tratta di una disposizione che, per la specialità dei rapporti e per il periodo breve (è personale che serve per banchetti, meetings e cerimonie), trova una propria giustificazione anche per le modalità sintetiche della comunicazione on-line di assunzione (se non si hanno tutti i dati disponibili). Si tratta, a ben guardare, di una tipologia di contratto a termine che appare sempre più soppiantata da prestazioni di lavoro accessorio (art. 70 e seguenti del D.L.vo n. 276/2003) o dal contratto di lavoro intermittente;

f)         i dirigenti il cui contratto a tempo determinato può avere una durata non superiore a cinque anni (art. 10, comma 4). Tale disposizione conferma quanto già fu detto con la legge n. 230/1962 e comunque, consente al dirigente di recedere dal contratto, previo preavviso ex art. 2118 c.c., dopo che sia trascorso un triennio;

g)         i lavoratori a termine con conferimento di supplenze sia del personale docente che ATA (art. 10, comma 4-bis), vista la particolare necessità “di assicurare la costante erogazione del servizio scolastico ed educativo anche in caso di assenza temporanea” dei titolari dell’incarico;

h)         i lavoratori alle dipendenze di aziende che esercitano il commercio di import – export e all’ingrosso di prodotti ortofrutticoli (art. 10, comma 5). Tale esclusione non è supportata da alcuna disposizione specifica: da ciò ne consegue che tali rapporti sono da collocare in un’area di totale libertà contrattuale.

Proviamo, ora, ad immaginare le conseguenze a cui andrebbe incontro un datore di lavoro il quale, applicando integralmente un CCNL, decidesse, in via del tutto discrezionale, di riferirsi alla percentuale legale del 20% rispetto a quella contrattuale che è minore. Occorre subito rilevare come il richiamo effettuato dal Legislatore alla contrattazione collettiva (art. 2 –bis del D.L. n. 34) faccia sì che questa assuma forza di legge per le imprese che rientrano in quel campo di applicazione, assorbendo lo stesso regime sanzionatorio previsto in via generale. In passato, una giurisprudenza consolidata aveva ritenuto che lo sforamento del limite contrattuale portasse alla conversione a tempo indeterminato del rapporto e, a mio avviso, tale rischio (che riguarda anche la clausola legale del 20%) sussiste ancora, atteso che, una lettura formale del testo attuale (che, ovviamente, prescinde sia dal dibattito parlamentare che dalle polemiche dei “media”) introduce una sanzione amministrativa che potrebbe non escludere altre conseguenze sul piano civilistico. Essa è rapportata alla durata del rapporto a termine “eccedente” che è pari al 20% della retribuzione (a mio avviso, da intendersi come “globale di fatto”) per ogni mese o frazione di mese superiore ai quindi giorni se l’infrazione si è realizzata per un solo lavoratore, per salire al 50% se interessa più lavoratori. Indubbiamente, la sanzione amministrativa potrebbe essere particolarmente pesante, in presenza di un rapporto a termine in violazione della percentuale che ha avuto una lunga durata: basti pensare ad un contratto a termine durato tre anni, cosa che potrebbe produrre un importo pecuniario pari a migliaia di euro, sol riferendosi ad una percentuale del 20%.

Per quel che riguarda, invece, la persistenza di una ulteriore sanzione di natura civilistica, anche in relazione alla previsione dell’art. 32, comma 5, della legge n. 183/2010, il dubbio è forte e, forse, può essere superato soltanto attraverso una norma di interpretazione autentica da inserire in un prossimo provvedimento.

Gli importi della sanzione amministrativa, irrogata dagli organi di vigilanza del Ministero del Lavoro, confluiscono nel fondo sociale per l’occupazione e la formazione, previsto dall’art. 18, comma 1, lettera a) della legge n. 2/2009: sarà, sicuramente, il Dicastero del Welfare, a dettare le modalità operative in base alle quali agiranno gli ispettori del lavoro (e gli altri organi deputati a far rispettare le norme relative alla regolarità dei rapporti). In ogni caso, ritengo che qualora si intervenga nel corso di un rapporto a termine “sforato” ma ancora in corso la sanzione non possa che essere riferita al periodo trascorso (si fa riferimento al rapporto e non al contratto), non essendo possibile calcolare l’ammontare della sanzione pecuniaria comprendendo anche quella parte della prestazione non ancora svolta (e che potrebbe anche non aver luogo per effetto di una risoluzione contrattuale anticipata, pur se, a mio avviso, ciò dovesse avvenire in forza di un atto unilaterale del datore, il dipendente avrebbe, quantomeno, diritto ad un risarcimento pari alle mensilità non lavorate).

La sanzione amministrativa alla quale si è accennato non trova applicazione relativamente ai rapporti di lavoro instaurati prima del 21 marzo 2014, data di entrata in vigore del D.L. n. 34, che comportino il superamento del limite percentuale del 20%.

Un’altra cosa che, correttamente, è cambiata nel passaggio parlamentare è stata quella attraverso la quale il riferimento alle imprese che, con un organico fino a cinque dipendenti potevano sempre assumere un lavoratore con contratto a termine, è stato sostituito, più propriamente, con le parole “i datori di lavoro”: che il cambiamento sia stato giusto lo dimostra il fatto che, ora, anche i datori di lavoro che non sono imprese (si pensi, ad esempio, agli studi professionali, alle associazioni o alle fondazioni) e che, prima, erano esclusi, possono assumere lavoratori con contratto a tempo determinato “acausale”. Quando si parla di datori di lavoro con un organico (di lavoratori subordinati a tempo indeterminato) fino a cinque unità, si intende che il numero va da zero fino a cinque.

C’è, poi, una ulteriore specificazione (oltremodo meritevole), intervenuta in sede di conversione che riguarda gli Istituti e gli Enti pubblici e privati di ricerca: qualora si intenda assumere lavoratori destinati, in via esclusiva (è questo l’unico requisito richiesto) a svolgere un’attività di ricerca scientifica e tecnologica o che debbono effettuare assistenza tecnica, coordinamento o direzione, non c’è alcun limite di percentuale come non c’è il limite massimo di trentasei mesi. Tutto questo si giustifica con la circostanza che, sovente, i progetti che sono anche di provenienza comunitaria, hanno una durata superiore ai tre anni.

Una particolare attenzione va dedicata, a mio avviso, ad alcune disposizioni transitorie che sono comprese nei commi 2 e 3 dell’art. 2 –bis. Esse riguardano due fattispecie diverse.

La prima è quella nella quale i datori di lavoro applicano CCNL che prevedono limiti percentuali diversi e quella riferita a datori di lavoro per i quali la pattuizione collettiva non ha stabilito limiti.

Ebbene, fino alla scadenza, le imprese che si rifanno a CCNL che prevedono limiti e modalità di calcolo diverse potranno continuare ad applicare quanto ivi stabilito. E’ il caso, ad esempio, del CCNL del terziario ove la percentuale è del 20% annuo sull’organico a tempo indeterminato ma la stessa viene calcolata su quello in forza nell’unità produttiva e dove si afferma che nelle unità che occupano fino a quindici dipendenti è consentita la stipula di quattro contratti a termine che salgono a sei per le unità dimensionate tra le sedici e le trenta unità (con una percentuale che, di fatto, viene ad essere superiore ai limiti legali). Per completezza di informazione va ricordato che è, altresì, possibile in questo settore nelle unità produttive che occupano fino a quindici dipendenti la utilizzazione di sei lavoratori a termine in somministrazione. Lo stesso identico discorso può essere fatto per il contratto del legno (aziende industriali) ove la percentuale è del 25% rapportata non all’impresa nel suo complesso, ma all’unità produttiva, con le frazioni sempre arrotondabili all’unità superiore, o anche nel CCNL del tessile industriale ove le percentuali di riferimento sono elevabili con accordo aziendale.

Con il successivo comma 3, l’art. 2 –bis  (ed è la seconda fattispecie) si occupa dei datori di lavoro che alla data del 21 marzo 2014 non hanno percentuali di riferimento nel CCNL applicato ma che hanno in corso rapporti di lavoro a termine in percentuale superiore al 20%. Ebbene, il datore di lavoro sarà tenuto a rientrare nella percentuale legale del 20%, entro il 31 dicembre 2014, a meno che un contratto collettivo applicabile nell’azienda disponga un limite percentuale o un termine più favorevole:  in caso contrario non potrà accedere a nuovi contratti a tempo determinato fino al momento in cui sarà rientrato nei limiti di percentuale. Vale la pena di ricordare come il Legislatore abbia chiarito che la sanzione amministrativa comminabile in caso di sforamento della percentuale non trova applicazione per i rapporti di lavoro instaurati prima del 21 marzo 2014 che comportino il superamento della percentuale: da ciò si deduce che se un datore di lavoro che è già sopra la percentuale di riferimento stipula, comunque, altri contratti a termine nel corso dell’anno, è comunque soggetto alla sanzione amministrativa.

Il concetto appena riportato sembra aprire la porta a contrattazioni collettive anche di secondo livello (aziendale, “in primis”, ma anche territoriale) in base alle quali si possa stabilire un limite percentuale diverso (maggiore o minore) o un termine più favorevole (ad esempio, il posticipo della data di “rientro nella percentuale” al 31 dicembre 2015): ovviamente tali accordi andranno raggiunti e stipulati prima della fine del 2014.

Infine, c’è una questione che, a mio avviso, è strettamente correlata alla percentuale “legale” del 20%: essa è rappresentata dalla disposizione aggiuntiva prevista dall’art. 2 del D.L.vo n. 368/2001 per il trasporto aereo, per i servizi aeroportuali e per quelli postali. Qui la disposizione intende favorire, con una percentuale del 15% dei contratti a termine, quelle attività che si sviluppano nell’arco temporale di sei mesi all’anno (tra aprile e ottobre) e che presentano picchi di attività. La percentuale massima, rispetto all’organico aziendale è del 15%: essa può essere “sforata” nei c.d. “aeroporti minori”, previa autorizzazione della Direzione territoriale del Lavoro la quale è tenuta ad emettere il provvedimento sulla base di considerazioni relative alla quantità dell’attività ed al parere delle organizzazioni sindacali provinciali di categoria a cui vanno comunicate tutte le richieste di assunzione. Tale norma ha, appunto, il pregio di agevolare le assunzioni a termine in questi specifici settori con una percentuale, quella del 15%, che, fino ad oggi, si è ritenuta congrua. Ora, mi chiedo, questa disposizione è ancora valida (non c’è stata alcuna abrogazione esplicita), oppure è da intendersi, tacitamente, superata, in quanto ora il limite “legale” è fissato al 20%?

Di per se stessa la disposizione, come dicevo, è vigente e, forse, in considerazione del fatto che le assunzioni  a termine sono state ipotizzate per picchi stagionali di attività, le stesse potrebbero essere considerate come stagionali e, quindi, non rientranti nella percentuale del 20% (art. 10, comma 7, del D.L.vo n. 368/2001): da ciò si potrebbe dedurre che le imprese considerate nell’ambito dell’art. 2 potrebbero avere, legalmente, una percentuale ordinaria del 20%, cui si possono aggiungere contratti legati alla stagionalità per un’aliquota del 15%. E’ pur vero che, in ogni caso, almeno per le imprese con un organico di lavoratori a tempo indeterminato di decine di migliaia di unità come Poste Italiane SpA il discorso appare più teorico che pratico, atteso il grosso numero di personale a tempo indeterminato in forza, cosa che non porterà, mai, ad assunzioni a termine di così grande rilevanza.

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Eufranio Massi
Eufranio Massi 323 posts

E' stato per 40 anni dipendente del Ministero del Lavoro. Ha diretto, in qualità di Dirigente, le strutture di Parma, Latina, i Servizi Ispettivi centrali, Modena, Verona, Padova e Piacenza. Collabora, da sempre, con riviste specializzate e siti web sul tema lavoro tra cui Generazione vincente blog.

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